Mappe #25

La materia verticale di Imperatrice Bruno

Un vortice di forze centripete si agita e si dibatte incessantemente nella poesia della giovane Imperatrice Bruno (Ariano Irpino 2001) che colpisce per la tensione che attraversa i versi della sua Materia verticale, un viaggio incandescente attraverso le regioni oscure ed enigmatiche dell’esistenza: «La tua natura è del sole che esplode / e che per sua natura esplode / per riesplodere / e così il muschio che ti circonda / si brucia, / i rami che a tua cornice vorrebbero vantarsi / si chinano invece ai tuoi piedi, / ogni essere grida di sorpresa e di paura / la tua natura è il profondo sud del mondo». Ha ragione Pontiggia, introducendo questo libro di ardenti e audaci visioni, a parlare di un daimon, di una «voce che detta, assegnando un destino, liberando forze che giungono da un tempo lungo. E che si muovono tra opposte tensioni, congiungendo ciò che è separato e discorde». Siamo condotti in universo ctonio, in una dimensione primitiva e mediterranea abitata da oscuri segnali e brucianti profezie: «Marzo sarà il ritorno della gente di mare, / si alzeranno i toni con Atlantide in bocca, / si chiederà dei poeti delle notti nei porti; / i poeti nascono nei porti, portano alle labbra / labbra di dolore, mani bagnate, / portano agli occhi tavole dure, / hanno la lingua bruciata». Chi scrive ci conduce sulla soglia dell’indicibile, lì dove tutto sembra vacillare e anche la parola trema, in un tempo visitato da misteriosi annunci: «Ormai è finito il nostro tempo, / tremano / i polsi sui fianchi; / nel sonno lieve / mi levi gli orecchini, / soffio che spegne / ceri bianchi».

(Massimiliano Mandorlo)

Imperatrice Bruno, Materia verticale, prefazione di Giancarlo Pontiggia, Piazza Armerina, Nulla die, 2024, pp. 120, € 15.

Lineatempo #40

Dossier

  • Anna Andreoni – Il valore formativo del romanzo
  • Alessandro Zaccuri – Breve elogio del romanzesco
  • Bart Van den Bossche – Il romanzo, genere della modernità?
  • Anna Andreoni – «Ti racconto una storia»: l’ineludibile bisogno di narrare
  • Simonetta Valenti – Émile Zola: esattezza scientifica e potenza espressiva
  • Giampaolo Pignatari – La Storia della colonna infame di Manzoni ci interroga
  • Vincenzo Rizzo – Il romanzo dostoevskiano
  • Nicola Renato Pizio – Cormac McCarthy tra filosofia e psichiatria
  • Mario Eugenio Predieri – Jon Fosse: Shining Darkness
  • Raffaela Paggi e Alessandro Baro – Jon Kalman Stefánsson, i romanzi dell’avventura della vita
  • Teresa Colombo – Del Giudice: «Scrivere fa fatica e fa paura»
  • A cura di Andrea Caspani – Intervista al direttore di Ares Alessandro Rivali

Percorsi

  • Giuseppe Botturi – Impariamo a leggere
  • Annalisa Mastelotto – Cosa (non) leggono i giovani
  • Piero Poncetta – Leggere il capolavoro di Eugenio Corti
  • Diego Picano – Leggere il reale con Il Gattopardo
  • Benedetta Crepaldi – Lontano dal pianeta silenzioso o della comunicazione

Segmenti

  • Alessandro Giostra – ISIS: ascesa e declino di un protagonista del terrorismo
  • Silvana Rapposelli – Giovanni Barbareschi, ribelle per amore
  • Fiorenza Boschi – Abaj, il poeta dei Kazaki (Parte II)

Recensioni ed Eventi

  • Byung-Chul Han: solo la narrazione apre alla speranza (a cura di Giorgio Cavalli)
  • Per incontrare Eugenio Corti (a cura di Nino Barbieri)
  • Un romanzo d’amore e di formazione  (a cura di Maria Luisa Hugnot)
  • Vittime sbagliate (a cura di Giuliana Zanello)
  • L’avventura di uno scrittore ateo in viaggio con papa Francesco (a cura di Giampaolo Pignatari)

Mappe #24

Poesia presenza del mondo: L’attenzione di Angelo Andreotti

La poesia come soglia di attenzione dove non-più e non-ancora rinnovano la possibilità dello sguardo e quindi le parole del passaggio umano. Questo ci suggerisce Angelo Andreotti, poeta ferrarese morto da qualche anno, in L’attenzione (puntoacapo, 2019), libro dall’incedere sommesso e misurato che però non intende eclissare la commozione dell’incontro tra esperienza soggettiva e realtà circostante: «all’aurora / è in te stupore. | E il quieto abbandono / dei primi altissimi voli, librati / nell’aria ancora tutta da provare, / ti è riposo nell’anima / e attenuano la paura di te stesso / nascosto dentro a un luogo profondo / che non ti è centro, neppure salvezza» (All’aurora). L’orizzonte salvifico qui sembra essere quello di una parola che si affaccia sul bianco del foglio non come esercizio di letteratura ma come traduzione del «ritmo dei tuoi passi» (Gestazione) che pone alla luce un essere nel mondo sempre situato, nella «tua nudità / quando sei tu a prender gioia dal mondo» (Dialoghi). Interrogando un taglio di luce crepuscolare – ma nell’accezione data alla poesia di Gozzano&Co., ovvero tanto di inizio quanto di fine del giorno – così come le ore notturne tradizionalmente più inquiete e fertili per l’anima, Andreotti ci invita a un viaggio heideggeriano che si fa cura delle ferite del mondo che portano tutte lo stigma de L’indifferenza («Se soltanto sfiorassi quella vita»), di una momentanea caduta del nostro essere al mondo creature presenti, compassionevoli, poetiche: «Se qui, come se questo fosse il mondo, / ed è il mondo, il tuo mondo» (Presenza). Nonostante quella che sembra una naturale vocazione al rimanere all’ombra, il poeta non viene meno al suo compito di cercare un terreno di incontro in cui la propria esperienza risuoni in quella dell’Altro e viceversa, un’«ora che ci è comune ad entrambi / e ci accoglie e ci tiene qui insieme, / […] / in quest’ora in cui ha luogo il vero» (La condivisione). È lo stesso kairos della poesia sancito dalla citazione in chiusura di Simone Weil: «L’attenzione è la forma più rara e più pura della generosità. A pochi spiriti è dato scoprire che le cose e gli esseri esistono».

(Pietro Russo)

Angelo Andreotti, L’attenzione, prefazione di Antonio Prete, Pasturana, Puntoacapo, 2019, pp. 92, € 12.

Dostoevskij: la speranza sulle labbra di un ubriacone

di Laura Cioni

«Perché si dovrebbe aver pietà, dici? Sì! Non c’è motivo d’aver pietà di me! Bisognerebbe crocifiggermi, mettermi in croce, invece di avere pietà! Ma crocifiggimi, giudice, crocifiggimi pure, e, dopo avermi crocifisso, abbi pietà di me! E allora io stesso verrò da te per essere crocifisso, poiché non è l’allegria che bramo, ma il dolore, e le lacrime! … Pensi forse, oste, che questo tuo mezzo fiasco mi abbia dato dolcezza? Il dolore, il dolore io cercavo in fondo ad esso, il dolore e le lacrime, e l’ho assaporato, l’ho fatto mio; e avrà pietà di noi Colui che di tutti ha avuto pietà e che tutti ha compreso, Egli è l’unico, ed Egli è anche il giudice. Verrà quel giorno, e domanderà: ‘E dov’è quella figlia che si è immolata per una matrigna tisica e malvagia, e per dei bimbi piccoli che non le erano fratelli? Dov’è quella figlia che ebbe pietà del padre suo terreno, un ubriacone impenitente, senza provare orrore per la sua bestialità?’. E dirà: ‘Vieni! Io ti ho già perdonato una volta… Ti ho perdonato una volta… Siano perdonati anche adesso i tuoi molti peccati, per il fatto che tu molto hai amato…’. E perdonerà la mia Sonja, la perdonerà, io so bene che la perdonerà… Poco fa, quando sono stato da lei, l’ho sentito nel mio cuore! … E tutti giudicherà e perdonerà, e i buoni e i cattivi, e i saggi e i mansueti… E quando avrà finito con tutti gli altri, allora apostroferà anche noi: ‘Uscite – dirà – anche voi! Uscite, ubriaconi, uscite, deboli, uscite uomini senza onore!’. E noi usciremo tutti, senza vergogna, e ci metteremo ritti dinanzi a lui. E dirà: ‘Porci siete! Con l’effigie della bestia e la sua impronta; ma venite anche voi!’. E l’apostroferanno i saggi, lo apostroferanno coloro che hanno giudizio: ‘Signore! Perché mai accogli anche costoro?’. E dirà: ‘Li accolgo, saggi, li accolgo, voi che avete giudizio, perché non uno di loro si è ritenuto degno di ciò…’. E tenderà verso di noi le braccia sue, e noi cadremo in ginocchio… E scoppieremo in pianto… E tutto capiremo! In quel momento tutto capiremo! …E tutti capiranno… Signore, venga il regno tuo!» (Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo).

Chi parla è Marmeladov, in una delle pagine iniziali di Delitto e castigo. Il suo scomposto discorrere da ubriaco riempie la bettola dove si è bevuto i soldi ricevuti poco prima da sua figlia Sonja, la prostituta che provvede alla sussistenza della famiglia.

C’è una parola che ritorna nelle frasi spezzate, dai nessi temporali e logici non sempre chiari. È la parola pietà, che trasforma la scena iniziale, fatta di lacrime, di debolezza, di malcelata vergogna, nell’aperto scenario del giudizio universale. Si avvera qui, in modo inaspettato, un’affermazione che sant’Agostino trae dalla sua esperienza di oratore, secondo cui la Parola è impressa dentro di noi non lontano da ciò che sta scritto nella nostra coscienza (Conf. I,18).

Marmeladov all’inizio chiede all’oste e agli avventori pietà per sé. Non ha cercato nell’ubriachezza il piacere, ma le lacrime per la sua misera condizione che sembra senza riscatto, avviluppata nel vizio senza che il pensiero della sua famiglia abbia il potere di guarirne o almeno di attenuarne gli effetti. Per questo cerca i soldi dalla figlia maggiore, Sonja. Chiede pietà per lei, sacrificata nel suo corpo per mantenere la famiglia, in realtà per pagare il vizio del padre. Il richiamo evangelico è esplicito: l’amore filiale purifica i peccati di Sonja fino al perdono, perché molto ha amato.

Lo scenario si spalanca a poco a poco e lo sguardo corre al giorno ultimo, quello del giudizio universale, nel quale tutto sarà perdonato, perché troverà la pietà di Colui che non distingue tra buoni e cattivi, anzi preferisce a quelli che si ritengono giusti coloro che non si sono mai creduti degni di salvezza.

«Venga il regno tuo!». Sulle labbra di un ubriacone l’ultima, riassuntiva parola della Scrittura.

Mappe #23

Le ragioni del canto di Massimiliano Bardotti

A lettura ultimata di A noi basti la gioia di cantare (peQuod, 2025), immagino l’autore, Massimiliano Bardotti, come la corda di uno strumento tesa nello spazio infinito dell’universo. In questo modo il Grande Cantore, pizzicandola, rinnova l’opera della creazione tramite le parole del poeta: «Si sospende così il tempo / come non ci fossero più cose accadute / e cose sperate, solo un presente / in cui tutto è avvenuto per sempre. // E per sempre canta: “ora”». Se il fare-dire della poesia non si mette a servizio di questa verità, che combacia con un’esperienza di fede nel mondo, quale traccia del nostro passaggio lasceremo? Il libro di Bardotti sembra inchiodarci continuamente a questa domanda; i versi e le prose che lo compongono possono quindi essere letti come una “meditazione” sulla morte che non ha (e non vuole avere) nessun orpello intellettuale, logico-razionale. Il punto da cui scrive il poeta è, infatti, una misura assolutamente soggettiva e universale allo stesso tempo: «Appartengo a quell’ultimo respiro / dal quale sono nato». Forte di questa appartenenza, Bardotti – “pellegrino russo” in latitudini toscane – va alla ricerca di una fonte inesauribile di senso, trovandola infine nella gioia di un cantare aperto e ferito come una preghiera: «Fammi tutto amore / non resti di me neanche una traccia, / solo amore e nulla più». Tuttavia non si pensi, erroneamente, che l’universalità (e l’universo) del canto del poeta sottragga luce alla realtà della storia e degli affetti terreni; la vita coniugale, l’amicizia, le fusa della gatta-filosofa Etty che insegna a «praticare» la felicità, le difficoltà e la fatica del quotidiano non sono un mero sfondo o una “occasione” poetica, anzi essi emergono come il terreno fertile e necessario che prepara la voce al dispiegarsi del canto. Perché, come scrive Bardotti, «e forse è già essere salvi / abitare il cuore degli altri / per accoglienza». Con questa certezza, ci facciamo allora bastare la gioia di una bocca che si apre per essere all’altezza del Creatore.

(Pietro Russo)

Massimiliano Bardotti, A noi basti la gioia di cantare, Ancona, peQuod, 2025, pp. 104, € 14,25.

Lineatempo #39

Dossier

  • Andrea Caspani – Il colore della Liberazione
  • Amedeo Costabile – Il nodo della Resistenza: la scelta della libertà e la nuova idea di nazione
  • Alberto Leoni – Per una (nuova) epopea della Resistenza
  • La testimonianza di Piero Borghini sull’antifascismo a cura di Andrea Caspani
  • Matteo Fanelli – Il caso Rolando Rivi: una via per riconciliare memorie e storia?
  • Intervista a Gastone Breccia a cura di Federico Sesia – Il drammatico ultimo inverno di guerra in Italia  
  • Grazia Vona-Margherita Zucchi – Il Comandante Alfredo Di Dio e la zona liberata dell’Ossola
  • Roberto Reali – Una memoria per frammenti: la vicenda degli Internati Militari Italiani
  • Giancarlo Sala – La storia di tre protagonisti della lotta partigiana senz’armi in Brianza
  • Gianfranco Noferi – La Resistenza dimenticata e il contributo dei cattolici
  • Intervista a Francesco Pierangeli a cura di Maria Antonietta Marasco – Una testimonianza su Roma occupata: la guerra secondo nonno Francesco
  • Tommaso Piffer – Sangue sulla Resistenza. La vera storia di Porzûs
  • Marino Micich – La questione della frontiera orientale italo-jugoslava nel Novecento. Una vicenda storica complessa
  • Paolo Trevisan-Over the rainbow – La resistenza vissuta da Fenoglio, Calvino e Meneghello

Percorsi

  • Laura Vergallo Levi – Ferramonti: un campo di concentramento anomalo

Segmenti

  • Maria Pia Alberzoni – Agli inizi del Giubileo: la bolla di Bonifacio VIII del 1300
  • Alessandro Giostra – Gli Houthi e il caos yemenita (Parte II)
  • Fiorenza Boschi – Abaj, il poeta dei Kazaki (Parte I)
  • Valerio Capasa – Pasolini e Gaber: due bussole critiche contro il nichilismo del benessere
  • Walter Gatti – Canzoni e cantautori a scuola?

Recensioni ed Eventi

  • Alle radici dell’Europa moderna: unità e varietà dello ‘stile’ barocco (a cura di Emma Ferrari)
  • Riscoprire la tradizione contro il nichilismo di oggi (a cura di Massimo De Angelis)

La potenza ambigua della natura

Rileggendo Romeo e Giulietta

di Laura Cioni

Ѐ l’alba del giorno più triste per Giulietta e Romeo. Dopo la notte d’amore, la scena si muove verso un esito tragico. Ma prima c’è una pagina meditativa, che in parte anticipa quello che avverrà. Frate Lorenzo si leva molto presto per raccogliere le erbe. La bellezza così abituale e così nuova alla quale si affaccia lo sospinge a una riflessione che è insieme pratica e poetica.

Il mattino dagli occhi grigi sorride alla cupa notte,
mandando strisce di luce verso le nuvole d’oriente;
e l’oscurità già livida di macchie, come un ubriaco che barcolla,
si allontana dal sentiero del giorno e dalle ruote di fuoco del Titano.
Ora, prima che il sole giunga col suo occhio di fiamma
a rallegrare il giorno e ad asciugare
l’umida rugiada della notte,
io devo riempire questo paniere di vimini
con erbe velenose e fiori dal succo prezioso.
La terra è madre e tomba della natura:
il suo sepolcro è il grembo dal quale ha origine
la sua vita; e noi vediamo nascere
da questo grembo figli di varie specie, che succhiano
dal suo seno. Alcuni, ottimi per numerose virtù
(nessuno che ne sia privo), e ognuno differente dall’altro.
Oh, come grande e potente è la virtù che risiede nelle piante,
nelle erbe, nelle pietre, e nelle loro più segrete qualità!
Infatti nulla esiste sulla terra di così umile,
che non possa dare alla terra qualche bene particolare;
e nulla è così buono che, sviato dal suo uso,
non si ribelli alla sua vera natura, cadendo nell’abuso.
La virtù stessa, male adoperata, può diventare un vizio,
e qualche volta il vizio si nobilita per la sua azione.
Sotto la tenera membrana di questo fragile fiore,
c’è insieme un veleno e un potere medico;
infatti se l’odori, eccita ogni senso,
se lo assaggi, ferma il cuore e tutti i sensi.
Come nelle erbe, così nell’uomo stanno accampati
due re nemici: la grazia e la volontà spietata.
E quella pianta dove predomina la peggiore di queste
forze, è presto divorata dal cancro della morte.

(Romeo e Giulietta, atto II, scena III)

L’assiduo compito del giardiniere e la conoscenza della farmacopea del tempo contribuiscono a una visione della terra come operosa fattrice della vita e insieme tomba che copre il disfarsi e poi il rivivere di erbe, piante e pietre. Non è lontana l’eco di Virgilio, ma neppure il remoto ricordo dell’Eden. Ѐ un inno al bene che c’è in ogni creatura, ma anche l’avvertimento di una ambiguità che deve essere attentamente considerata. Tutto in natura coopera al bene, a patto di non cadere nell’abuso.
Questa non è una pagina scientifica nel senso odierno del termine; non contiene formule, non misure, ma è guidata da uno sguardo amante per lunga consuetudine. In una cultura settoriale e specializzata, come è quella in cui viviamo, la riflessione di Shakespeare potrebbe servire da introduzione a molti libri di scuola. La conoscenza è unitaria, prima di volgersi ai vari rami del sapere.
Il duplice volto delle cose viene snidato anche nell’uomo, in guerra tra due tendenze, la grazia e la volontà spietata, l’accoglimento del dono della vita e la sua negazione. Non si tratta di bene e male, ma di qualcosa di più profondo, inerente alla natura stessa di una creatura che ha il singolare potere di tendere alla luce o di lasciarsi divorare dal cancro della morte.
Tutti sappiamo l’esito tragico dell’amore dei due giovani. L’abuso della volontà spietata delle loro famiglie in lotta genera la morte. Ma questa non è l’ultima parola: la pace degli animi è frutto anche della grazia, che stende sulla vicenda un velo di luce.

Mappe #22

Anche Dio trema e non dorme:

di queste mie notti insonni di Luca Pizzolitto

I poeti sono persone che fanno “il turno di notte”, come diceva Izet Sarajlić, vegliano sulle rovine ma anche sulle gioie del mondo; per questo l’insonnia che contraddistingue il loro operato è molto spesso un distillato d’oro che anticipa la prima luce del giorno. Sicuramente ciò si può dire di Luca Pizzolitto, il quale fa dono agli amici di un libretto fuori commercio edito da peQuod in tiratura limitata (50 copie), di queste mie notti insonni (la minuscola è del titolo).

Il sottoscritto, che ha il privilegio di godere dell’amicizia di Pizzolitto, si ritrova dunque tra le mani una copia del corpo a corpo del poeta con le ore della notte, le più ricche di agonia per la carne e di frutti per lo spirito, secondo l’esempio che rimanda alla semantica del Getsemani già sviluppata da Pizzolitto nel precedente libro. Ogni poesia contenuta in di queste mie notti insonni è, si potrebbe dire, un’oliva che noi “visualizziamo” nell’attimo esatto in cui viene schiacciata affinché sgorghi la prima goccia di olio: «È qui che si compie / l’esistere di ora, / il mio ritorno a casa». Dal frantoio della notte («nero inferno della notte») il poeta non sembra intenzionato ad uscire prima di aver compiuto il passo iniziale sulla via del ritorno che porta una chiara missione: «Alzati, ora; veglia la notte e il canto». E così l’olio della poesia va a sanare «il fianco trafitto d’abisso», «il fianco offeso della bellezza» di chi si pone davanti alla vita senza schermi, con l’irrequietezza di chi cerca – «randagio in terre di misera gioia» – quell’«inizio di tutte le cose» che coincide infine con un vastissimo «silenzio» che tacita intenzioni e false promesse. La prerogativa di questo luogo aurorale, che Pizzolitto ci mostra scarno come pietra e apparentemente inospitale come un deserto, è che non occorrono parole – neanche quelle, bellissime, dei poeti amati (Turoldo, Guidacci, Hillesum, ecc.) e qui chiamati a dialogare con i testi più autobiografici della parte centrale del libro – perché l’unica verità da enunciare – evidenza e certezza che giunge con la luce dell’alba – ha un fragore che sconquassa le budella dell’essere: «Anche Dio trema davanti / agli occhi di un bambino».

(Pietro Russo)

Luca Pizzolitto, di queste mie notti insonni, Ancona, peQuod, 2024, edizione fuori commercio.

Anche nel buio della notte, il filo di una speranza

Invito alla lettura di Federico Pichetto, Perdonare la notte, Effatà Editrice, Cantalupa (TO) 2024, pp. 175, euro 16.00.

di Laura Cioni

Il titolo del libro di Federico Pichetto, Perdonare la notte, introduce con efficacia il contenuto, costituito da dodici interviste immaginarie a personaggi che hanno vissuto la notte del dolore, della malattia, della solitudine e che non ne sono state risucchiate.
L’esistenza umana solo di rado è lineare, ma quella dei dodici intervistati è aggrovigliata in modo particolare da situazioni di cui la cronaca sovente parla, ma senza capacità di scendere oltre la superficie. Qui non c’è curiosità, ma il desiderio di capire origine e sviluppo di vite in cui si intrecciano buio e luce, errori e riprese, in cui l’imprevisto è in agguato ad ogni svolta. Ma come una sorpresa è presente anche un filo di accettazione. Proprio questo è “perdonare la notte”, non solo alla fine del travaglio, ma come un mistero nascosto che include e collega le vicende.
È il caso dello scrittore famoso, aggredito dal disturbo bipolare, che fa della sua vita in manicomio una scuola di speranza. O quello di una cantante che perde il figlio in un incidente e vede ricostituirsi la sua famiglia attorno a quel dolore che avrebbe potuto invece distruggerla.
Si potrebbe dire che tutto il dolore racchiuso in queste pagine è intrecciato a una sorta di speranza e che la narrazione, di per sé drammatica, acquista un lieve timbro di pace.

Mappe #21

Vedere l’invisibile. Le finestre di Daniele Giustolisi

In un mondo dominato dalle molteplici icone degli smartphone e dallo scorrimento rapido di immagini e video – scrolling – sullo schermo dei dispositivi touchscreen, il brillante saggio di Daniele Giustolisi (Catania 1989) dedicato alla “finestra” è di particolare valore proprio nel riuscire ad innescare una riflessione critica e un affascinante dialogo sulle immagini attraversando il mondo della pittura e del cinema, spingendosi fino alle interfacce di Microsoft Windows. Il lavoro interdisciplinare di Giustolisi si pone come un atlante “incompleto” le cui carte prendono vita da una scelta particolare e individuale dell’autore e vengono illustrate e interrogate con uno sguardo fenomenologico e “poetico”. Non di sola semiotica si tratta infatti ma, nell’approccio dell’autore, – che ha già pubblicato due raccolte poetiche e ne ha una terza in arrivo – lo sguardo offerto dalla visione poetica è di particolare importanza «per cogliere quelle turbolente ed enigmatiche forze che, allo sguardo, certe rappresentazioni dell’arte (pittorica e non solo) scatenano, oltre il visibile». La “finestra” è immagine-segno capace di scandire l’inizio di una nuova era per l’uomo come nella storia biblica di Noè che, trascorsi quaranta giorni, apre finalmente le finestre dell’arca; è soglia, metafora esistenziale e sguardo reversibile dell’Altro e verso l’Altro, delimitazione di uno spazio sacro, simbolo di una rivelazione che «oscilla teologicamente tra presenza e assenza, tra luce e oscurità». Le suggestioni che nascono dalla lettura di questo eclettico libro-finestra sono davvero molteplici e nascono da un universo di profonde letture e riflessioni filosofiche, teologiche e artistiche, in una comune tensione a «deporre la vista per ricercare uno sguardo più profondo» e ad «esporci a nuove e imprevedibili aperture». La riflessione poliedrica di Giustolisi sull’elemento della finestra ha origine da un’antica visione che l’autore porta con sé fin dalla sua fanciullezza in un paesino siciliano arroccato su una collina che domina lo Ionio: «sopra i tetti delle case e delle altre terrazze (più basse della nostra), si scorgeva, in un capovolgimento prospettico vertiginoso, un piccolo specchio lontanissimo di mare solcato da barche minuscole come puntini. Il mare, da questa angolazione strettissima, era sopra i tetti delle case sorvolate dalle navi». Finestra, in definitiva, come possibilità di “vedere l’invisibile” oltre le maglie strette della tecnica e della razionalità, per aprire nuove e inedite prospettive al nostro sguardo sul mondo. Siamo per questo grati a Giustolisi e al suo libro insolito e coraggioso che torna a ricordarcelo.

(Massimiliano Mandorlo)

Daniele Giustolisi, Alla finestra. Sguardi, soglie e fratture tra pittura e cinema, Massa, Industria & Letteratura, 2023, pp. 180, € 18.

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