La potenza ambigua della natura

Rileggendo Romeo e Giulietta

di Laura Cioni

Ѐ l’alba del giorno più triste per Giulietta e Romeo. Dopo la notte d’amore, la scena si muove verso un esito tragico. Ma prima c’è una pagina meditativa, che in parte anticipa quello che avverrà. Frate Lorenzo si leva molto presto per raccogliere le erbe. La bellezza così abituale e così nuova alla quale si affaccia lo sospinge a una riflessione che è insieme pratica e poetica.

Il mattino dagli occhi grigi sorride alla cupa notte,
mandando strisce di luce verso le nuvole d’oriente;
e l’oscurità già livida di macchie, come un ubriaco che barcolla,
si allontana dal sentiero del giorno e dalle ruote di fuoco del Titano.
Ora, prima che il sole giunga col suo occhio di fiamma
a rallegrare il giorno e ad asciugare
l’umida rugiada della notte,
io devo riempire questo paniere di vimini
con erbe velenose e fiori dal succo prezioso.
La terra è madre e tomba della natura:
il suo sepolcro è il grembo dal quale ha origine
la sua vita; e noi vediamo nascere
da questo grembo figli di varie specie, che succhiano
dal suo seno. Alcuni, ottimi per numerose virtù
(nessuno che ne sia privo), e ognuno differente dall’altro.
Oh, come grande e potente è la virtù che risiede nelle piante,
nelle erbe, nelle pietre, e nelle loro più segrete qualità!
Infatti nulla esiste sulla terra di così umile,
che non possa dare alla terra qualche bene particolare;
e nulla è così buono che, sviato dal suo uso,
non si ribelli alla sua vera natura, cadendo nell’abuso.
La virtù stessa, male adoperata, può diventare un vizio,
e qualche volta il vizio si nobilita per la sua azione.
Sotto la tenera membrana di questo fragile fiore,
c’è insieme un veleno e un potere medico;
infatti se l’odori, eccita ogni senso,
se lo assaggi, ferma il cuore e tutti i sensi.
Come nelle erbe, così nell’uomo stanno accampati
due re nemici: la grazia e la volontà spietata.
E quella pianta dove predomina la peggiore di queste
forze, è presto divorata dal cancro della morte.

(Romeo e Giulietta, atto II, scena III)

L’assiduo compito del giardiniere e la conoscenza della farmacopea del tempo contribuiscono a una visione della terra come operosa fattrice della vita e insieme tomba che copre il disfarsi e poi il rivivere di erbe, piante e pietre. Non è lontana l’eco di Virgilio, ma neppure il remoto ricordo dell’Eden. Ѐ un inno al bene che c’è in ogni creatura, ma anche l’avvertimento di una ambiguità che deve essere attentamente considerata. Tutto in natura coopera al bene, a patto di non cadere nell’abuso.
Questa non è una pagina scientifica nel senso odierno del termine; non contiene formule, non misure, ma è guidata da uno sguardo amante per lunga consuetudine. In una cultura settoriale e specializzata, come è quella in cui viviamo, la riflessione di Shakespeare potrebbe servire da introduzione a molti libri di scuola. La conoscenza è unitaria, prima di volgersi ai vari rami del sapere.
Il duplice volto delle cose viene snidato anche nell’uomo, in guerra tra due tendenze, la grazia e la volontà spietata, l’accoglimento del dono della vita e la sua negazione. Non si tratta di bene e male, ma di qualcosa di più profondo, inerente alla natura stessa di una creatura che ha il singolare potere di tendere alla luce o di lasciarsi divorare dal cancro della morte.
Tutti sappiamo l’esito tragico dell’amore dei due giovani. L’abuso della volontà spietata delle loro famiglie in lotta genera la morte. Ma questa non è l’ultima parola: la pace degli animi è frutto anche della grazia, che stende sulla vicenda un velo di luce.

Mappe #22

Anche Dio trema e non dorme:

di queste mie notti insonni di Luca Pizzolitto

I poeti sono persone che fanno “il turno di notte”, come diceva Izet Sarajlić, vegliano sulle rovine ma anche sulle gioie del mondo; per questo l’insonnia che contraddistingue il loro operato è molto spesso un distillato d’oro che anticipa la prima luce del giorno. Sicuramente ciò si può dire di Luca Pizzolitto, il quale fa dono agli amici di un libretto fuori commercio edito da peQuod in tiratura limitata (50 copie), di queste mie notti insonni (la minuscola è del titolo).

Il sottoscritto, che ha il privilegio di godere dell’amicizia di Pizzolitto, si ritrova dunque tra le mani una copia del corpo a corpo del poeta con le ore della notte, le più ricche di agonia per la carne e di frutti per lo spirito, secondo l’esempio che rimanda alla semantica del Getsemani già sviluppata da Pizzolitto nel precedente libro. Ogni poesia contenuta in di queste mie notti insonni è, si potrebbe dire, un’oliva che noi “visualizziamo” nell’attimo esatto in cui viene schiacciata affinché sgorghi la prima goccia di olio: «È qui che si compie / l’esistere di ora, / il mio ritorno a casa». Dal frantoio della notte («nero inferno della notte») il poeta non sembra intenzionato ad uscire prima di aver compiuto il passo iniziale sulla via del ritorno che porta una chiara missione: «Alzati, ora; veglia la notte e il canto». E così l’olio della poesia va a sanare «il fianco trafitto d’abisso», «il fianco offeso della bellezza» di chi si pone davanti alla vita senza schermi, con l’irrequietezza di chi cerca – «randagio in terre di misera gioia» – quell’«inizio di tutte le cose» che coincide infine con un vastissimo «silenzio» che tacita intenzioni e false promesse. La prerogativa di questo luogo aurorale, che Pizzolitto ci mostra scarno come pietra e apparentemente inospitale come un deserto, è che non occorrono parole – neanche quelle, bellissime, dei poeti amati (Turoldo, Guidacci, Hillesum, ecc.) e qui chiamati a dialogare con i testi più autobiografici della parte centrale del libro – perché l’unica verità da enunciare – evidenza e certezza che giunge con la luce dell’alba – ha un fragore che sconquassa le budella dell’essere: «Anche Dio trema davanti / agli occhi di un bambino».

(Pietro Russo)

Luca Pizzolitto, di queste mie notti insonni, Ancona, peQuod, 2024, edizione fuori commercio.

Anche nel buio della notte, il filo di una speranza

Invito alla lettura di Federico Pichetto, Perdonare la notte, Effatà Editrice, Cantalupa (TO) 2024, pp. 175, euro 16.00.

di Laura Cioni

Il titolo del libro di Federico Pichetto, Perdonare la notte, introduce con efficacia il contenuto, costituito da dodici interviste immaginarie a personaggi che hanno vissuto la notte del dolore, della malattia, della solitudine e che non ne sono state risucchiate.
L’esistenza umana solo di rado è lineare, ma quella dei dodici intervistati è aggrovigliata in modo particolare da situazioni di cui la cronaca sovente parla, ma senza capacità di scendere oltre la superficie. Qui non c’è curiosità, ma il desiderio di capire origine e sviluppo di vite in cui si intrecciano buio e luce, errori e riprese, in cui l’imprevisto è in agguato ad ogni svolta. Ma come una sorpresa è presente anche un filo di accettazione. Proprio questo è “perdonare la notte”, non solo alla fine del travaglio, ma come un mistero nascosto che include e collega le vicende.
È il caso dello scrittore famoso, aggredito dal disturbo bipolare, che fa della sua vita in manicomio una scuola di speranza. O quello di una cantante che perde il figlio in un incidente e vede ricostituirsi la sua famiglia attorno a quel dolore che avrebbe potuto invece distruggerla.
Si potrebbe dire che tutto il dolore racchiuso in queste pagine è intrecciato a una sorta di speranza e che la narrazione, di per sé drammatica, acquista un lieve timbro di pace.

Mappe #21

Vedere l’invisibile. Le finestre di Daniele Giustolisi

In un mondo dominato dalle molteplici icone degli smartphone e dallo scorrimento rapido di immagini e video – scrolling – sullo schermo dei dispositivi touchscreen, il brillante saggio di Daniele Giustolisi (Catania 1989) dedicato alla “finestra” è di particolare valore proprio nel riuscire ad innescare una riflessione critica e un affascinante dialogo sulle immagini attraversando il mondo della pittura e del cinema, spingendosi fino alle interfacce di Microsoft Windows. Il lavoro interdisciplinare di Giustolisi si pone come un atlante “incompleto” le cui carte prendono vita da una scelta particolare e individuale dell’autore e vengono illustrate e interrogate con uno sguardo fenomenologico e “poetico”. Non di sola semiotica si tratta infatti ma, nell’approccio dell’autore, – che ha già pubblicato due raccolte poetiche e ne ha una terza in arrivo – lo sguardo offerto dalla visione poetica è di particolare importanza «per cogliere quelle turbolente ed enigmatiche forze che, allo sguardo, certe rappresentazioni dell’arte (pittorica e non solo) scatenano, oltre il visibile». La “finestra” è immagine-segno capace di scandire l’inizio di una nuova era per l’uomo come nella storia biblica di Noè che, trascorsi quaranta giorni, apre finalmente le finestre dell’arca; è soglia, metafora esistenziale e sguardo reversibile dell’Altro e verso l’Altro, delimitazione di uno spazio sacro, simbolo di una rivelazione che «oscilla teologicamente tra presenza e assenza, tra luce e oscurità». Le suggestioni che nascono dalla lettura di questo eclettico libro-finestra sono davvero molteplici e nascono da un universo di profonde letture e riflessioni filosofiche, teologiche e artistiche, in una comune tensione a «deporre la vista per ricercare uno sguardo più profondo» e ad «esporci a nuove e imprevedibili aperture». La riflessione poliedrica di Giustolisi sull’elemento della finestra ha origine da un’antica visione che l’autore porta con sé fin dalla sua fanciullezza in un paesino siciliano arroccato su una collina che domina lo Ionio: «sopra i tetti delle case e delle altre terrazze (più basse della nostra), si scorgeva, in un capovolgimento prospettico vertiginoso, un piccolo specchio lontanissimo di mare solcato da barche minuscole come puntini. Il mare, da questa angolazione strettissima, era sopra i tetti delle case sorvolate dalle navi». Finestra, in definitiva, come possibilità di “vedere l’invisibile” oltre le maglie strette della tecnica e della razionalità, per aprire nuove e inedite prospettive al nostro sguardo sul mondo. Siamo per questo grati a Giustolisi e al suo libro insolito e coraggioso che torna a ricordarcelo.

(Massimiliano Mandorlo)

Daniele Giustolisi, Alla finestra. Sguardi, soglie e fratture tra pittura e cinema, Massa, Industria & Letteratura, 2023, pp. 180, € 18.

La “mitezza” dell’amore che non può finire

Un musical sul mito di Orfeo e Euridice

di Laura Cioni

Con grande riscontro di interesse, la Scala di Milano ha ospitato il 19 gennaio 2025 la prima proiezione del film The Opera! Arie per un’eclissi: un'opera-musical che racconta in chiave moderna il mito di Orfeo ed Euridice ambientato nella nostra contemporaneità. L’opera è stata portata sullo schermo da Davide Livermore e Paolo Gep Cucco, con i costumi di scena firmati Dolce&Gabbana (qui anche in veste di produttori). Si tratta di un film-evento, che in seguito è stato possibile guardare, ascoltare e ammirare al cinema solo nei giorni 20, 21 e 22 gennaio 2025.

Virgilio non aveva a disposizione musica, danza, abiti e strumenti digitali quando scrisse la leggenda di Orfeo e Euridice, riproposta recentemente alla Scala di Milano in uno spettacolo ricco di suoni e colori. Aveva lo stilo, mosso da un sentimento partecipe del dolore della vita. Quella che racconta nel quarto libro delle Georgiche è una leggenda antica di millenni, a noi pervenuta soltanto attraverso la sua poesia, in sostituzione dell’elogio di Cornelio Gallo caduto in disgrazia presso Augusto e per questo epurato.
Orfeo, il mitico musico che ammansiva le fiere con la dolcezza del suo canto, ama e sposa la ninfa Euridice. Nel fuggire dall’indesiderata corte di Aristeo, ella muore per il morso di un serpente. Tutta la natura piange con Orfeo, che tenta di consolarsi cantando sulla riva deserta la sposa perduta. Grazie alla dolcezza del suo canto ottiene di varcare la soglia dell’Ade, là dove regnano cuori incapaci di essere addolciti da preghiere umane. Si inoltra nelle tenebre paurose dell’oltretomba e le tenui ombre gli si avvicinano, innumerevoli come gli uccelli che si celano nelle fronde degli alberi quando la pioggia invernale o la sera li cacciano dalle montagne; sono imprigionate dalla palude stigia e le accompagnano le Eumenidi, giù negli inferi più cupi. Tutti sono pieni di incanto nell’ascolto di Orfeo ed egli ottiene da Proserpina di riportare in vita Euridice. Sembra che la poesia, penetrata nel regno della morte, ottenga di far rivivere quello che era perduto per sempre.
Ma c’è una condizione: Euridice sale verso la vita seguendo Orfeo, che non deve girarsi a guardarla prima che entrambi giungano alla luce: ma proprio sulla soglia Orfeo viene preso da una incauta follia, viola i patti imposti dagli dei inferi e si volta a guardare la diletta sposa. Impazienza scusabile, se i Mani sapessero perdonare. In un attimo tutto è perduto. La terra trema e si ode la voce di Euridice: «Ora addio. Vado circondata da una immensa notte, tendendo a te, ahi non più tua, le deboli mani».
Invano Orfeo cerca di afferrare l’ombra, di ridiscendere per la palude. La via è sbarrata. Per lunghi mesi piange, commuovendo le tigri e le querce, come all’ombra di un pioppo l’usignolo lamenta i piccoli perduti perché una mano cattiva li ha sottratti dal nido.
Non è, come appare a prima vista, una tragedia. Ѐ l’elegia dell’amore umano, impotente davanti alla morte. È la consapevolezza che anche l’arte non riesce a riportare in vita ciò che si è perduto e che si rivorrebbe. Ma pur intriso di lacrime, è un dolore che non si ribella, che accetta il limite di cui la natura è fatta e che con questa mitezza accoglie dentro di sé la vastità della sofferenza del mondo.

Stoner, di John Williams

Letto da Mario De Simoni

Pubblicato nel 1965, Stoner ha una storia editoriale abbastanza insolita. Il suo autore, John Williams, aveva ricevuto il premio del National Book Award, con il libro Augustus. Continuò a scrivere per tutta la vita, sino alla morte avvenuta nel 1994, ma non ottenne mai un grande successo. Non in vita, almeno. Una riedizione di Stoner del 2012 riportò sotto i riflettori un libro che aveva colpito molti lettori e numerose case editrici internazionali. Il successo di Stoner nasce da una riscoperta postuma, dalla scoperta di una qualità di scrittura esemplare e dalla proposta della vita di un uomo che non deve vincere a tutti i costi, che non deve essere un eroe del proprio tempo, ma che si offre come un uomo dalla vita quasi nascosta, ma che per questo si afferma come esempio del nostro tempo.
Due parole sull’autore John Williams: nato in una famiglia di modeste condizioni economiche del Texas, si iscrisse all’Università di Denver solo dopo la fine della seconda guerra mondiale, durante la quale aveva combattuto in India e in Birmania dal 1942 al 1945. Rimase a Denver per tutta la vita, dove insegnò letteratura inglese presso l’Università del Missouri. Poeta e narratore, John Williams è stato riscoperto negli ultimi anni, diventando un vero e proprio fenomeno di culto a livello internazionale. Tra i romanzi più celebri, oltre a Stoner e Augustus, abbiamo anche Butcher’s Crossing e Nulla, solo la notte.

Stoner è il racconto della vita di un uomo normale. Il protagonista lascia la fattoria dei genitori per recarsi all’università con l’obiettivo di conseguire un titolo di studio in Agraria:

«L’ispettore della contea dice che adesso hanno delle idee nuove, dei modi di fare le cose che ti insegnano all’università». «Vuoi davvero che vada? – fece come se sperasse in un rifiuto. È questo che vuoi?».

Nel corso degli studi incontra un anziano professore che gli fa capire che la sua inclinazione più vera è quella di insegnare:

«Ma non capisce, Mr. Stoner? – domandò – Non ha ancora capito? Lei sarà un insegnante». «Come può dirlo, come fa a saperlo?». «E’ la passione, Mr. Stoner – disse allegro Sloane – la passione che c’è in lei».

Questo è un primo aspetto interessante: la scoperta di un’inclinazione – si potrebbe dire anche di una vocazione nella vita – diversa da quella che si aspettavano sia i genitori che lui:

«Non so – disse suo padre – Non immaginavo che sarebbe andata a finire così. Pensavo di aver fatto il meglio che potevo per te, mandandoti qui. Tua madre e io abbiamo sempre fatto del nostro meglio». «Lo so – disse Stoner». Non riusciva più a guardarli negli occhi.

Stoner svolge così un ruolo importante come docente universitario, ma si direbbe diligentemente, senza grandi slanci apparenti:

Nei semplici esercizi di composizione che preparava per gli studenti coglieva le potenzialità della prosa e la sua bellezza, e non vedeva l’ora di trasmettere ai suoi allievi il senso di quelle scoperte. Ma quando arrivò il primo giorno e cominciò a spiegare alla classe, scoprì che quell’entusiasmo rimaneva nascosto dentro di lui.

Anche nei confronti della guerra, «ora che, come tutti, se la trovava davanti, scopriva dentro di sé una vasta riserva d’indifferenza». Solo quando si trova di fronte, nel suo lavoro, all’opposizione del direttore di dipartimento, per difendere il suo ruolo di insegnante ingaggia con lui uno scontro lungo e pesante. Infine, quasi inevitabilmente dopo un corteggiamento assiduo e faticoso, si prende una moglie, Edith, che gli dichiara la sua volontà di fedeltà: «Cercherò di essere una buona moglie per te, William, Cercherò». Tuttavia, nel giro di un mese Stoner realizza che il suo matrimonio è già un fallimento. Edith infatti è un soggetto apatico e quando è attiva sembra essere posseduta dal male, che la spinge a mettere Stoner in un angolo, sia nella loro casa, sia nella loro vita coniugale, sia allontanandolo da quella figlia che lei aveva fermamente voluto vivendo con lui due mesi di passione intensa e sfrenata. Una passione però che poco aveva a che fare con l’amore, e verso la quale, soprattutto nei primi anni, lui aveva nutrito un sincero affetto.

Quella di Stoner è una vita controllata, dunque, fino al giorno in cui all’improvviso compare, quasi come un’anomalia, il momento in cui lui conosce l’amore per una sua allieva, Katrine: una passione forte, coinvolgente, ma Stoner non arriva fino in fondo in questa relazione. A un certo punto fa un passo indietro, sembra quasi che preferisca proseguire in una vita priva di emozioni forti.

Quand’era giovanissimo Stoner pensava che l’amore fosse uno stato assoluto dell’essere a cui un uomo, se fortunato, poteva avere il privilegio di accedere. Durante la maturità, l’aveva invece liquidato come il paradiso di una falsa religione, da contemplare con scettica ironia, soave e navigato disprezzo, e vergognosa nostalgia. Arrivato alla mezza età, cominciava a capire che non era né un’illusione, né uno stato di grazia: lo vedeva come una parte del divenire umano, una condizione inventata e modificata momento per momento, e giorno dopo giorno, dalla volontà, dall’intelligenza e dal cuore.

Stoner si trova così, alla fine della sua vita, a desiderare qualcosa che in realtà non sa neanche lui, perché non sa darsi risposte, perché per tutta la vita non se ne è date: cosi doveva andare.

Era arrivato a un’età in cui, con intensità crescente, gli si presentava sempre la stessa domanda, di una semplicità così disarmante che non aveva gli strumenti per affrontarla. Si ritrovava a chiedersi se la sua vita fosse degna di essere vissuta.

Quando poi alla fine si trova sul letto di morte, il bilancio che tenta di fare della sua vita non gli appare affatto soddisfacente:

Spietatamente vide la sua vita come doveva apparire agli occhi di un altro. Ponderatamente, con calma, realizzò che doveva sembrare un vero fallimento. Aveva voluto l’amicizia e quell’intimità legata all’amicizia che potesse renderlo degno del genere umano. Aveva voluto l’unicità e la quieta indissolubilità del matrimonio, e non aveva saputo che farsene, tanto che si era spenta. Aveva voluto l’amore e ci aveva rinunciato, abbandonandolo al caos delle possibilità. Katerine, pensò, Katerine. Aveva voluto essere un insegnante e lo era diventato. Eppure, sapeva, lo aveva sempre saputo, che per buona parte della sua vita era stato un insegnante mediocre. Aveva sognato di mantenere una specie di integrità, una sorta di purezza incontaminata; aveva trovato il compromesso e la forza dirompente della superficialità. Aveva concepito la saggezza e al termine di quei lunghi anni aveva trovato l’ignoranza. E che altro pensò? che altro?

Il protagonista di questo romanzo apparentemente non ha nulla di attrattivo, così come gli altri personaggi del romanzo, che attraversano la loro esistenza con occhi diafani, cercando di smorzare i sentimenti già sul nascere. Ma quando il racconto finisce, ci si rende conto che potrebbe essere la vita di chiunque, descritta in modo semplice, senza slanci, ma in modo efficace, forte, e con un’elevata qualità letteraria. È il racconto dell’umano, è un romanzo su cosa significhi essere umani, in cui ciascuno può ritrovare almeno una parte di sé. Un racconto che ti coinvolge a mano a mano che lo leggi, facendoti intravvedere in ogni pagina un senso di riscatto, una possibilità di rinascita che non si avvera mai. Questa mi pare la grandezza del messaggio che l’autore sembra indicarci. All’ideale dell’eroe viene sostituito un anti-eroe che non fa cose straordinarie, che non compie imprese di grande valore. Emerge così, da questo libro, l’uomo, si potrebbe dire qualunque uomo, che vive la sua vita con umiltà, così come le circostanze gliela presentano.

Lineatempo #38

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Recensioni ed Eventi


Mappe #20

La rovina e lo stupore, quasi una preghiera: L’estremo forte degli occhi di Cettina Caliò

Le parole, quando sono misurate, muovono dal respiro e dal battito cardiaco. Lo sa il monaco che con la  ‘preghiera del cuore’ raggiunge l’Irraggiungibile e lo sa Cettina Caliò artefice di una poesia pneumatica in cui la versificazione scarna e la sillabazione franta, che da sempre contraddistinguono la sua scrittura, sono al servizio di una ricerca del respiro – e qui il genitivo è da intendersi tanto come soggetto quanto come oggetto. Non fa eccezione il suo ultimo lavoro, L’estremo forte degli occhi, dove la «magrezza del fiato» della poeta si cala negli abissi della presenza e «nello spavento della durata» (p. 17). Se vogliamo, possiamo intravedervi il filo di una catabasi, uno scandaglio del pneuma-respiro nelle scaturigini del proprio manifestarsi: «il fiato, il mio ha bisogno di indugiare sull’impronta del passo» (p. 18).

Questo “viaggio” di Caliò, forse iniziatico (in un senso che denota un nuovo inizio timidamente crivellato di luce) «attraverso il giorno che / da tutte le parti cade» (p. 29), è un approssimarsi all’esattezza del respiro («Come il fiato esatto dal peso», p. 33) mediante la complicità di una parola che sta «sul ciglio labile del nulla» (p. 35) elevato a prospettiva: «per incredulità mormorare Dio / nel buio schiantato di una stanza // e rintracciare la vita / là dove era da mai / che forte così si respirava» (p. 34). Se di ri-nascita si tratta, il titolo del libro è allora una dichiarazione di resa preliminare agli intenti di poetica: «l’anima crolla / dentro il tuo respiro // nell’estremo forte degli occhi / mai si stanca la sorte di accadere» (p. 36).

Il movimento della poesia di Cettina Caliò, volto a scoprire «del corpo / uno spazio sotterraneo / e disabitato» (p. 39), ha come asse principale questo dentro a cui la realtà esterna sembra aggrapparsi nell’estremità della visione. Il respiro è confine labile che non si lascia tracciare in positivo: «in moltitudini di fiato / imparo per negazione» (p. 49). Difetto, smottamento, crollo: la semantica della “rovina” trova dunque in L’estremo forte degli occhi tutta una declinazione del fallimento del fiato («per poi scoprirci / sfiatati», p. 54) salvo poi accorgersi – in extremis, appunto – che «la stessa bolla d’aria che d’improvviso strozzava il respiro e in spasimi minacciava la vita» (p. 62) è una caduta ma non una disfatta («passa tutto / e resta», p. 70) perché sempre ci è assicurata la possibilità dello «stupor», dello stupore che tramuta lo sfracello in grazia: «In quel poco di vento / ruvido del mio respiro / c’è sempre qualcosa che sei tu // che sempre mi stai pulsante / sulle tempie come perpetuo / avvento» (p. 73).

(Pietro Russo)

Cettina Caliò, L’estremo forte degli occhi, Milano, La nave di Teseo, 2024, pp. 80, € 11,99.

Mappe #19

«Perché voglio omaggiare la vita». Lo spirito cuoce di Francesco Vitale

Una sorta di slancio e dinamismo di forze in movimento abita la lingua e la poesia di Francesco Vitale, giovane poeta di origini calabresi che osa per il suo libro di poesia – con una certa libertà al di fuori di certi modelli retorici e letterari – un titolo sicuramente insolito ed enigmatico, Lo spirito cuoce. Vitale cita in epigrafe un verso di Franco Loi e forse proprio Loi avrebbe apprezzato per libertà di spirito e capacità di contaminazione alcuni dei testi più riusciti – penso alla sezione Vita aperta – di questo libro: «Sono le diciannove e trentadue / e salto / perché voglio omaggiare la vita. / La cena è pronta / e il mio stomaco sorgente / richiama all’adunata / la fame. […] / Tutto è pronto / Accaduto / allo stesso modo / del dì di ieri / e il mondo è felice. / Per l’ennesima volta / non si è smentito». Vitale si interessa di musica, fotografia, cinema, letteratura giapponese e haiku e in questo libro eclettico si mette alla ricerca, spinto da un suo ritmo interiore, di quella crepa che si apre nelle cose minime ed umili e le attraversa, spalancandole alla luce: «Crepa che si apre alla luce / è bagliore è lampo / attimo di sterminata aria / fiato grande / che circonda e abbraccia / il respiro del mondo / e porta a bere la sete / di ogni particella piccola / di ogni principale nascita». Ed è appunto il mistero e la potenza della vita ad ardere e bruciare in questo libro intessuto di parole-costellazioni che celebrano senza timore una ritrovata e primordiale armonia per cui le cose possono diventare “sorelle”, in una sorta di moderno cantico francescano che aspira a cantare il «trionfo della vita / in alba grande». Omaggiare la vita, sembra che questa sia per Vitale la sorgente da cui nasce anche la poesia, quel fuoco silenzioso che fa lievitare spirito e materia: «Il mio silenzio è d’oro. / Ho ventiquattro karati di silenzio / per cento per cento per cento. / Il mio silenzio sta / sul tempo della lievitazione / è fatto di pane e farina / è grano è pagliuzze / e cuoce a fuoco lento».

(Massimiliano Mandorlo)

Francesco Vitale, Lo spirito cuoce, Roma, Edizioni Efesto, 2023, pp. 110, € 13,50.

Mappe #18

In viaggio verso Gerusalemme. Sequentia di palmiere di Sebastiano Burgaretta

In tempi così incerti e inquieti per il Medio oriente, e in particolare per tutta la Terrasanta, è utile rileggere un testo così folgorante e profondamente ispirato come il poemetto Sequentia di palmiere del siciliano Sebastiano Burgaretta (Avola 1946), poeta, saggista e studioso di tradizioni popolari siciliane con già all’attivo un’ampia bibliografia che spazia dal campo letterario a quello etnoantropologico, religioso e artistico. Con l’umiltà e la tensione conoscitiva del pellegrino – palmière nell’accezione dantesca dei pellegrini che si recano « oltre mare, là onde molte volte recano la palma» – Burgaretta si mette in viaggio verso la «luce viva» di Yerushalàim, madre di tutte le città, in una prodigiosa esplorazione di sé e del mondo in cui eternità e istante, profezia e attualità si incontrano in un flusso incandescente di lingue, citazioni, momenti e tappe diverse di un unico viaggio: «Relicario d’amore rebosante, / in volo con El Al alla matrice, / celebra il ritorno dell’amore / alla casa del portento nazareno. / Pañuelo muy sagrado de ternura / por lácrimas materne e fedeltà […]». Si tratta di un pellegrinaggio che insegue i segni vivi e presenti di un Hic le cui millenarie tracce vibrano ovunque nella terra di Palestina, come evidenzia fra’ Ugo Van Doorne nella sua prefazione al volume: «L’Hic delle iscrizioni pavimentali si iscrive ancora e sempre nella storia di tutti i giorni, di tutti i tempi, a tutte le latitudini del globo terrestre e dell’universo» (p. 21). Così il pellegrino Burgaretta, nel suo diario di viaggio impetuoso e visionario, si muove tra la nuvola d’Elia sul Carmelo e l’annuncio dell’Angelo a Màryam di Nazareth, verso il «Tabor del prodigio luminoso» e la Yerushalàim «d’oro, di bronzo e di luce», «arpa» di tutti i nostri possibili canti. Mosso dal vento dello spirito cammina verso il Cenacolo e veglia con Gesù nel buio del Getsemani, affidando all’intimità del suo siciliano la descrizione di quel momento di agonizzante solitudine: «Tremava alla prova la tua carne: «ttri-bboti façisti va e-bbeni / cchê picciotti ca t’àviutu puttatu, / ma solo sei rimasto nella notte; / non seppero vegliare qui con te».

Aveva visto bene Franco Loi quando, nelle sue storiche segnalazioni letterarie sul «Domenicale» de «Il Sole 24 Ore», parlando della poesia di Burgaretta scriveva: «All’astuzia dei potenti, degli accademici, dei ricchi, degli ideologhi, il poeta contrappone la sua attesa di una rivelazione del reale, la sua inermità, la sua complicità con gli uomini semplici, la sua attenzione all’ignoto in sé e fuori di sé» (domenica 24 ottobre 2004). Di rivelazione del reale e di ascolto del mistero profondo che abita in sé e fuori di sé è infatti tutta percorsa la poesia di Burgaretta che, dopo aver cantato la Resurrezione di Cristo con le parole della liturgia greco-ortodossa e di quella in lingua araba, scrive: «Il tempio dello Spirito siamo noi. / A te nel cuore una casa resterà / nel Sion vero e definitivo, / adorato tu in spirito e verità». Al pellegrino tornato ora a casa non rimane che ritornare nell’hic quotidiano, spogliandosi di tutto ma ricevendo come dono quello dell’obbedienza, che equivale a una forma totale di ascolto: «Ora lascia, Signore, che il tuo servo / torni alla misura quotidiana. / Vibrare più di tanto non può più. / Inutili a te l’opere sue, / prendi, se puoi, l’obbedienza sola».

(Massimiliano Mandorlo)

Sebastiano Burgaretta, Sequentia di palmiere, Comiso, Archilibri, 2010, pp. 69, € 6.

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