Mappe #21

Vedere l’invisibile. Le finestre di Daniele Giustolisi

In un mondo dominato dalle molteplici icone degli smartphone e dallo scorrimento rapido di immagini e video – scrolling – sullo schermo dei dispositivi touchscreen, il brillante saggio di Daniele Giustolisi (Catania 1989) dedicato alla “finestra” è di particolare valore proprio nel riuscire ad innescare una riflessione critica e un affascinante dialogo sulle immagini attraversando il mondo della pittura e del cinema, spingendosi fino alle interfacce di Microsoft Windows. Il lavoro interdisciplinare di Giustolisi si pone come un atlante “incompleto” le cui carte prendono vita da una scelta particolare e individuale dell’autore e vengono illustrate e interrogate con uno sguardo fenomenologico e “poetico”. Non di sola semiotica si tratta infatti ma, nell’approccio dell’autore, – che ha già pubblicato due raccolte poetiche e ne ha una terza in arrivo – lo sguardo offerto dalla visione poetica è di particolare importanza «per cogliere quelle turbolente ed enigmatiche forze che, allo sguardo, certe rappresentazioni dell’arte (pittorica e non solo) scatenano, oltre il visibile». La “finestra” è immagine-segno capace di scandire l’inizio di una nuova era per l’uomo come nella storia biblica di Noè che, trascorsi quaranta giorni, apre finalmente le finestre dell’arca; è soglia, metafora esistenziale e sguardo reversibile dell’Altro e verso l’Altro, delimitazione di uno spazio sacro, simbolo di una rivelazione che «oscilla teologicamente tra presenza e assenza, tra luce e oscurità». Le suggestioni che nascono dalla lettura di questo eclettico libro-finestra sono davvero molteplici e nascono da un universo di profonde letture e riflessioni filosofiche, teologiche e artistiche, in una comune tensione a «deporre la vista per ricercare uno sguardo più profondo» e ad «esporci a nuove e imprevedibili aperture». La riflessione poliedrica di Giustolisi sull’elemento della finestra ha origine da un’antica visione che l’autore porta con sé fin dalla sua fanciullezza in un paesino siciliano arroccato su una collina che domina lo Ionio: «sopra i tetti delle case e delle altre terrazze (più basse della nostra), si scorgeva, in un capovolgimento prospettico vertiginoso, un piccolo specchio lontanissimo di mare solcato da barche minuscole come puntini. Il mare, da questa angolazione strettissima, era sopra i tetti delle case sorvolate dalle navi». Finestra, in definitiva, come possibilità di “vedere l’invisibile” oltre le maglie strette della tecnica e della razionalità, per aprire nuove e inedite prospettive al nostro sguardo sul mondo. Siamo per questo grati a Giustolisi e al suo libro insolito e coraggioso che torna a ricordarcelo.

(Massimiliano Mandorlo)

Daniele Giustolisi, Alla finestra. Sguardi, soglie e fratture tra pittura e cinema, Massa, Industria & Letteratura, 2023, pp. 180, € 18.

La “mitezza” dell’amore che non può finire

Un musical sul mito di Orfeo e Euridice

di Laura Cioni

Con grande riscontro di interesse, la Scala di Milano ha ospitato il 19 gennaio 2025 la prima proiezione del film The Opera! Arie per un’eclissi: un'opera-musical che racconta in chiave moderna il mito di Orfeo ed Euridice ambientato nella nostra contemporaneità. L’opera è stata portata sullo schermo da Davide Livermore e Paolo Gep Cucco, con i costumi di scena firmati Dolce&Gabbana (qui anche in veste di produttori). Si tratta di un film-evento, che in seguito è stato possibile guardare, ascoltare e ammirare al cinema solo nei giorni 20, 21 e 22 gennaio 2025.

Virgilio non aveva a disposizione musica, danza, abiti e strumenti digitali quando scrisse la leggenda di Orfeo e Euridice, riproposta recentemente alla Scala di Milano in uno spettacolo ricco di suoni e colori. Aveva lo stilo, mosso da un sentimento partecipe del dolore della vita. Quella che racconta nel quarto libro delle Georgiche è una leggenda antica di millenni, a noi pervenuta soltanto attraverso la sua poesia, in sostituzione dell’elogio di Cornelio Gallo caduto in disgrazia presso Augusto e per questo epurato.
Orfeo, il mitico musico che ammansiva le fiere con la dolcezza del suo canto, ama e sposa la ninfa Euridice. Nel fuggire dall’indesiderata corte di Aristeo, ella muore per il morso di un serpente. Tutta la natura piange con Orfeo, che tenta di consolarsi cantando sulla riva deserta la sposa perduta. Grazie alla dolcezza del suo canto ottiene di varcare la soglia dell’Ade, là dove regnano cuori incapaci di essere addolciti da preghiere umane. Si inoltra nelle tenebre paurose dell’oltretomba e le tenui ombre gli si avvicinano, innumerevoli come gli uccelli che si celano nelle fronde degli alberi quando la pioggia invernale o la sera li cacciano dalle montagne; sono imprigionate dalla palude stigia e le accompagnano le Eumenidi, giù negli inferi più cupi. Tutti sono pieni di incanto nell’ascolto di Orfeo ed egli ottiene da Proserpina di riportare in vita Euridice. Sembra che la poesia, penetrata nel regno della morte, ottenga di far rivivere quello che era perduto per sempre.
Ma c’è una condizione: Euridice sale verso la vita seguendo Orfeo, che non deve girarsi a guardarla prima che entrambi giungano alla luce: ma proprio sulla soglia Orfeo viene preso da una incauta follia, viola i patti imposti dagli dei inferi e si volta a guardare la diletta sposa. Impazienza scusabile, se i Mani sapessero perdonare. In un attimo tutto è perduto. La terra trema e si ode la voce di Euridice: «Ora addio. Vado circondata da una immensa notte, tendendo a te, ahi non più tua, le deboli mani».
Invano Orfeo cerca di afferrare l’ombra, di ridiscendere per la palude. La via è sbarrata. Per lunghi mesi piange, commuovendo le tigri e le querce, come all’ombra di un pioppo l’usignolo lamenta i piccoli perduti perché una mano cattiva li ha sottratti dal nido.
Non è, come appare a prima vista, una tragedia. Ѐ l’elegia dell’amore umano, impotente davanti alla morte. È la consapevolezza che anche l’arte non riesce a riportare in vita ciò che si è perduto e che si rivorrebbe. Ma pur intriso di lacrime, è un dolore che non si ribella, che accetta il limite di cui la natura è fatta e che con questa mitezza accoglie dentro di sé la vastità della sofferenza del mondo.

Stoner, di John Williams

Letto da Mario De Simoni

Pubblicato nel 1965, Stoner ha una storia editoriale abbastanza insolita. Il suo autore, John Williams, aveva ricevuto il premio del National Book Award, con il libro Augustus. Continuò a scrivere per tutta la vita, sino alla morte avvenuta nel 1994, ma non ottenne mai un grande successo. Non in vita, almeno. Una riedizione di Stoner del 2012 riportò sotto i riflettori un libro che aveva colpito molti lettori e numerose case editrici internazionali. Il successo di Stoner nasce da una riscoperta postuma, dalla scoperta di una qualità di scrittura esemplare e dalla proposta della vita di un uomo che non deve vincere a tutti i costi, che non deve essere un eroe del proprio tempo, ma che si offre come un uomo dalla vita quasi nascosta, ma che per questo si afferma come esempio del nostro tempo.
Due parole sull’autore John Williams: nato in una famiglia di modeste condizioni economiche del Texas, si iscrisse all’Università di Denver solo dopo la fine della seconda guerra mondiale, durante la quale aveva combattuto in India e in Birmania dal 1942 al 1945. Rimase a Denver per tutta la vita, dove insegnò letteratura inglese presso l’Università del Missouri. Poeta e narratore, John Williams è stato riscoperto negli ultimi anni, diventando un vero e proprio fenomeno di culto a livello internazionale. Tra i romanzi più celebri, oltre a Stoner e Augustus, abbiamo anche Butcher’s Crossing e Nulla, solo la notte.

Stoner è il racconto della vita di un uomo normale. Il protagonista lascia la fattoria dei genitori per recarsi all’università con l’obiettivo di conseguire un titolo di studio in Agraria:

«L’ispettore della contea dice che adesso hanno delle idee nuove, dei modi di fare le cose che ti insegnano all’università». «Vuoi davvero che vada? – fece come se sperasse in un rifiuto. È questo che vuoi?».

Nel corso degli studi incontra un anziano professore che gli fa capire che la sua inclinazione più vera è quella di insegnare:

«Ma non capisce, Mr. Stoner? – domandò – Non ha ancora capito? Lei sarà un insegnante». «Come può dirlo, come fa a saperlo?». «E’ la passione, Mr. Stoner – disse allegro Sloane – la passione che c’è in lei».

Questo è un primo aspetto interessante: la scoperta di un’inclinazione – si potrebbe dire anche di una vocazione nella vita – diversa da quella che si aspettavano sia i genitori che lui:

«Non so – disse suo padre – Non immaginavo che sarebbe andata a finire così. Pensavo di aver fatto il meglio che potevo per te, mandandoti qui. Tua madre e io abbiamo sempre fatto del nostro meglio». «Lo so – disse Stoner». Non riusciva più a guardarli negli occhi.

Stoner svolge così un ruolo importante come docente universitario, ma si direbbe diligentemente, senza grandi slanci apparenti:

Nei semplici esercizi di composizione che preparava per gli studenti coglieva le potenzialità della prosa e la sua bellezza, e non vedeva l’ora di trasmettere ai suoi allievi il senso di quelle scoperte. Ma quando arrivò il primo giorno e cominciò a spiegare alla classe, scoprì che quell’entusiasmo rimaneva nascosto dentro di lui.

Anche nei confronti della guerra, «ora che, come tutti, se la trovava davanti, scopriva dentro di sé una vasta riserva d’indifferenza». Solo quando si trova di fronte, nel suo lavoro, all’opposizione del direttore di dipartimento, per difendere il suo ruolo di insegnante ingaggia con lui uno scontro lungo e pesante. Infine, quasi inevitabilmente dopo un corteggiamento assiduo e faticoso, si prende una moglie, Edith, che gli dichiara la sua volontà di fedeltà: «Cercherò di essere una buona moglie per te, William, Cercherò». Tuttavia, nel giro di un mese Stoner realizza che il suo matrimonio è già un fallimento. Edith infatti è un soggetto apatico e quando è attiva sembra essere posseduta dal male, che la spinge a mettere Stoner in un angolo, sia nella loro casa, sia nella loro vita coniugale, sia allontanandolo da quella figlia che lei aveva fermamente voluto vivendo con lui due mesi di passione intensa e sfrenata. Una passione però che poco aveva a che fare con l’amore, e verso la quale, soprattutto nei primi anni, lui aveva nutrito un sincero affetto.

Quella di Stoner è una vita controllata, dunque, fino al giorno in cui all’improvviso compare, quasi come un’anomalia, il momento in cui lui conosce l’amore per una sua allieva, Katrine: una passione forte, coinvolgente, ma Stoner non arriva fino in fondo in questa relazione. A un certo punto fa un passo indietro, sembra quasi che preferisca proseguire in una vita priva di emozioni forti.

Quand’era giovanissimo Stoner pensava che l’amore fosse uno stato assoluto dell’essere a cui un uomo, se fortunato, poteva avere il privilegio di accedere. Durante la maturità, l’aveva invece liquidato come il paradiso di una falsa religione, da contemplare con scettica ironia, soave e navigato disprezzo, e vergognosa nostalgia. Arrivato alla mezza età, cominciava a capire che non era né un’illusione, né uno stato di grazia: lo vedeva come una parte del divenire umano, una condizione inventata e modificata momento per momento, e giorno dopo giorno, dalla volontà, dall’intelligenza e dal cuore.

Stoner si trova così, alla fine della sua vita, a desiderare qualcosa che in realtà non sa neanche lui, perché non sa darsi risposte, perché per tutta la vita non se ne è date: cosi doveva andare.

Era arrivato a un’età in cui, con intensità crescente, gli si presentava sempre la stessa domanda, di una semplicità così disarmante che non aveva gli strumenti per affrontarla. Si ritrovava a chiedersi se la sua vita fosse degna di essere vissuta.

Quando poi alla fine si trova sul letto di morte, il bilancio che tenta di fare della sua vita non gli appare affatto soddisfacente:

Spietatamente vide la sua vita come doveva apparire agli occhi di un altro. Ponderatamente, con calma, realizzò che doveva sembrare un vero fallimento. Aveva voluto l’amicizia e quell’intimità legata all’amicizia che potesse renderlo degno del genere umano. Aveva voluto l’unicità e la quieta indissolubilità del matrimonio, e non aveva saputo che farsene, tanto che si era spenta. Aveva voluto l’amore e ci aveva rinunciato, abbandonandolo al caos delle possibilità. Katerine, pensò, Katerine. Aveva voluto essere un insegnante e lo era diventato. Eppure, sapeva, lo aveva sempre saputo, che per buona parte della sua vita era stato un insegnante mediocre. Aveva sognato di mantenere una specie di integrità, una sorta di purezza incontaminata; aveva trovato il compromesso e la forza dirompente della superficialità. Aveva concepito la saggezza e al termine di quei lunghi anni aveva trovato l’ignoranza. E che altro pensò? che altro?

Il protagonista di questo romanzo apparentemente non ha nulla di attrattivo, così come gli altri personaggi del romanzo, che attraversano la loro esistenza con occhi diafani, cercando di smorzare i sentimenti già sul nascere. Ma quando il racconto finisce, ci si rende conto che potrebbe essere la vita di chiunque, descritta in modo semplice, senza slanci, ma in modo efficace, forte, e con un’elevata qualità letteraria. È il racconto dell’umano, è un romanzo su cosa significhi essere umani, in cui ciascuno può ritrovare almeno una parte di sé. Un racconto che ti coinvolge a mano a mano che lo leggi, facendoti intravvedere in ogni pagina un senso di riscatto, una possibilità di rinascita che non si avvera mai. Questa mi pare la grandezza del messaggio che l’autore sembra indicarci. All’ideale dell’eroe viene sostituito un anti-eroe che non fa cose straordinarie, che non compie imprese di grande valore. Emerge così, da questo libro, l’uomo, si potrebbe dire qualunque uomo, che vive la sua vita con umiltà, così come le circostanze gliela presentano.

Lineatempo #38

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Mappe #20

La rovina e lo stupore, quasi una preghiera: L’estremo forte degli occhi di Cettina Caliò

Le parole, quando sono misurate, muovono dal respiro e dal battito cardiaco. Lo sa il monaco che con la  ‘preghiera del cuore’ raggiunge l’Irraggiungibile e lo sa Cettina Caliò artefice di una poesia pneumatica in cui la versificazione scarna e la sillabazione franta, che da sempre contraddistinguono la sua scrittura, sono al servizio di una ricerca del respiro – e qui il genitivo è da intendersi tanto come soggetto quanto come oggetto. Non fa eccezione il suo ultimo lavoro, L’estremo forte degli occhi, dove la «magrezza del fiato» della poeta si cala negli abissi della presenza e «nello spavento della durata» (p. 17). Se vogliamo, possiamo intravedervi il filo di una catabasi, uno scandaglio del pneuma-respiro nelle scaturigini del proprio manifestarsi: «il fiato, il mio ha bisogno di indugiare sull’impronta del passo» (p. 18).

Questo “viaggio” di Caliò, forse iniziatico (in un senso che denota un nuovo inizio timidamente crivellato di luce) «attraverso il giorno che / da tutte le parti cade» (p. 29), è un approssimarsi all’esattezza del respiro («Come il fiato esatto dal peso», p. 33) mediante la complicità di una parola che sta «sul ciglio labile del nulla» (p. 35) elevato a prospettiva: «per incredulità mormorare Dio / nel buio schiantato di una stanza // e rintracciare la vita / là dove era da mai / che forte così si respirava» (p. 34). Se di ri-nascita si tratta, il titolo del libro è allora una dichiarazione di resa preliminare agli intenti di poetica: «l’anima crolla / dentro il tuo respiro // nell’estremo forte degli occhi / mai si stanca la sorte di accadere» (p. 36).

Il movimento della poesia di Cettina Caliò, volto a scoprire «del corpo / uno spazio sotterraneo / e disabitato» (p. 39), ha come asse principale questo dentro a cui la realtà esterna sembra aggrapparsi nell’estremità della visione. Il respiro è confine labile che non si lascia tracciare in positivo: «in moltitudini di fiato / imparo per negazione» (p. 49). Difetto, smottamento, crollo: la semantica della “rovina” trova dunque in L’estremo forte degli occhi tutta una declinazione del fallimento del fiato («per poi scoprirci / sfiatati», p. 54) salvo poi accorgersi – in extremis, appunto – che «la stessa bolla d’aria che d’improvviso strozzava il respiro e in spasimi minacciava la vita» (p. 62) è una caduta ma non una disfatta («passa tutto / e resta», p. 70) perché sempre ci è assicurata la possibilità dello «stupor», dello stupore che tramuta lo sfracello in grazia: «In quel poco di vento / ruvido del mio respiro / c’è sempre qualcosa che sei tu // che sempre mi stai pulsante / sulle tempie come perpetuo / avvento» (p. 73).

(Pietro Russo)

Cettina Caliò, L’estremo forte degli occhi, Milano, La nave di Teseo, 2024, pp. 80, € 11,99.

Mappe #19

«Perché voglio omaggiare la vita». Lo spirito cuoce di Francesco Vitale

Una sorta di slancio e dinamismo di forze in movimento abita la lingua e la poesia di Francesco Vitale, giovane poeta di origini calabresi che osa per il suo libro di poesia – con una certa libertà al di fuori di certi modelli retorici e letterari – un titolo sicuramente insolito ed enigmatico, Lo spirito cuoce. Vitale cita in epigrafe un verso di Franco Loi e forse proprio Loi avrebbe apprezzato per libertà di spirito e capacità di contaminazione alcuni dei testi più riusciti – penso alla sezione Vita aperta – di questo libro: «Sono le diciannove e trentadue / e salto / perché voglio omaggiare la vita. / La cena è pronta / e il mio stomaco sorgente / richiama all’adunata / la fame. […] / Tutto è pronto / Accaduto / allo stesso modo / del dì di ieri / e il mondo è felice. / Per l’ennesima volta / non si è smentito». Vitale si interessa di musica, fotografia, cinema, letteratura giapponese e haiku e in questo libro eclettico si mette alla ricerca, spinto da un suo ritmo interiore, di quella crepa che si apre nelle cose minime ed umili e le attraversa, spalancandole alla luce: «Crepa che si apre alla luce / è bagliore è lampo / attimo di sterminata aria / fiato grande / che circonda e abbraccia / il respiro del mondo / e porta a bere la sete / di ogni particella piccola / di ogni principale nascita». Ed è appunto il mistero e la potenza della vita ad ardere e bruciare in questo libro intessuto di parole-costellazioni che celebrano senza timore una ritrovata e primordiale armonia per cui le cose possono diventare “sorelle”, in una sorta di moderno cantico francescano che aspira a cantare il «trionfo della vita / in alba grande». Omaggiare la vita, sembra che questa sia per Vitale la sorgente da cui nasce anche la poesia, quel fuoco silenzioso che fa lievitare spirito e materia: «Il mio silenzio è d’oro. / Ho ventiquattro karati di silenzio / per cento per cento per cento. / Il mio silenzio sta / sul tempo della lievitazione / è fatto di pane e farina / è grano è pagliuzze / e cuoce a fuoco lento».

(Massimiliano Mandorlo)

Francesco Vitale, Lo spirito cuoce, Roma, Edizioni Efesto, 2023, pp. 110, € 13,50.

Mappe #18

In viaggio verso Gerusalemme. Sequentia di palmiere di Sebastiano Burgaretta

In tempi così incerti e inquieti per il Medio oriente, e in particolare per tutta la Terrasanta, è utile rileggere un testo così folgorante e profondamente ispirato come il poemetto Sequentia di palmiere del siciliano Sebastiano Burgaretta (Avola 1946), poeta, saggista e studioso di tradizioni popolari siciliane con già all’attivo un’ampia bibliografia che spazia dal campo letterario a quello etnoantropologico, religioso e artistico. Con l’umiltà e la tensione conoscitiva del pellegrino – palmière nell’accezione dantesca dei pellegrini che si recano « oltre mare, là onde molte volte recano la palma» – Burgaretta si mette in viaggio verso la «luce viva» di Yerushalàim, madre di tutte le città, in una prodigiosa esplorazione di sé e del mondo in cui eternità e istante, profezia e attualità si incontrano in un flusso incandescente di lingue, citazioni, momenti e tappe diverse di un unico viaggio: «Relicario d’amore rebosante, / in volo con El Al alla matrice, / celebra il ritorno dell’amore / alla casa del portento nazareno. / Pañuelo muy sagrado de ternura / por lácrimas materne e fedeltà […]». Si tratta di un pellegrinaggio che insegue i segni vivi e presenti di un Hic le cui millenarie tracce vibrano ovunque nella terra di Palestina, come evidenzia fra’ Ugo Van Doorne nella sua prefazione al volume: «L’Hic delle iscrizioni pavimentali si iscrive ancora e sempre nella storia di tutti i giorni, di tutti i tempi, a tutte le latitudini del globo terrestre e dell’universo» (p. 21). Così il pellegrino Burgaretta, nel suo diario di viaggio impetuoso e visionario, si muove tra la nuvola d’Elia sul Carmelo e l’annuncio dell’Angelo a Màryam di Nazareth, verso il «Tabor del prodigio luminoso» e la Yerushalàim «d’oro, di bronzo e di luce», «arpa» di tutti i nostri possibili canti. Mosso dal vento dello spirito cammina verso il Cenacolo e veglia con Gesù nel buio del Getsemani, affidando all’intimità del suo siciliano la descrizione di quel momento di agonizzante solitudine: «Tremava alla prova la tua carne: «ttri-bboti façisti va e-bbeni / cchê picciotti ca t’àviutu puttatu, / ma solo sei rimasto nella notte; / non seppero vegliare qui con te».

Aveva visto bene Franco Loi quando, nelle sue storiche segnalazioni letterarie sul «Domenicale» de «Il Sole 24 Ore», parlando della poesia di Burgaretta scriveva: «All’astuzia dei potenti, degli accademici, dei ricchi, degli ideologhi, il poeta contrappone la sua attesa di una rivelazione del reale, la sua inermità, la sua complicità con gli uomini semplici, la sua attenzione all’ignoto in sé e fuori di sé» (domenica 24 ottobre 2004). Di rivelazione del reale e di ascolto del mistero profondo che abita in sé e fuori di sé è infatti tutta percorsa la poesia di Burgaretta che, dopo aver cantato la Resurrezione di Cristo con le parole della liturgia greco-ortodossa e di quella in lingua araba, scrive: «Il tempio dello Spirito siamo noi. / A te nel cuore una casa resterà / nel Sion vero e definitivo, / adorato tu in spirito e verità». Al pellegrino tornato ora a casa non rimane che ritornare nell’hic quotidiano, spogliandosi di tutto ma ricevendo come dono quello dell’obbedienza, che equivale a una forma totale di ascolto: «Ora lascia, Signore, che il tuo servo / torni alla misura quotidiana. / Vibrare più di tanto non può più. / Inutili a te l’opere sue, / prendi, se puoi, l’obbedienza sola».

(Massimiliano Mandorlo)

Sebastiano Burgaretta, Sequentia di palmiere, Comiso, Archilibri, 2010, pp. 69, € 6.

Mappe #17

«La gioia di un pensiero nascente»: Lo sguardo che si alza di Maria Grazia Maiorino

Un pensiero nascente, una sorta di letizia ritrovata nello sguardo attraversa la poesia di Maria Grazia Maiorino – bellunese ma trasferita da anni ad Ancona, con già alle spalle varie pubblicazioni di poesia, racconti e saggi di critica letteraria e collaborazioni con numerosi artisti – come la luce che torna a sfolgorare sulla città di Urbino in un giorno di festa: «segreto fra le torri come un chiostro / il giardino pensile si apre ai verdi / delle colline oltre le grandi finestre / aiuole intorno alla fontana garofanini / in fiore un profumo di rose indovinato / e altri alberelli di melograno / e tutto è lento vacillare e apprendersi / come la gioia di un pensiero nascente». Di sguardi tesi «lì dove abita la luce» è tutto percorso questo libro, nelle visioni trepidanti di un’arte che va dalla basilica di S. Eustorgio a Milano con la sua «stella / di Betlemme splendente sul campanile» al volto ligneo martoriato della Madonna di Nagasaki sopravvissuta all’atomica, alla Terra Santa con le sue annunciazioni e Magnificat fino ad arrivare ad un’incredibile e affascinante prosa dedicata ad una visita solitaria alla Pinacoteca di Ancona, dove nella visione della Pala Gozzi di Tiziano presente e infanzia si saldano miracolosamente: «Ti porta un vento nella mattina di marzo, passi veloci attenti alla strada e lo sguardo che ogni tanto si alza verso l’azzurro insolitamente terso tra le case, richiamo di un’altra luce, scende dalle montagne sulla tua città natale, detta la splendente – è quell’impronta dei ricordi più lontani, riconosciuta nell’età adulta, ora ti sembra di portare con te un lembo del mantello di Elia lasciato cadere dal cielo». Nella magia della pittura e della poesia segno artistico e parola si rincorrono, si compenetrano, e in questo mistero di bellezza a cui anche l’autrice alza lo sguardo e nuovamente si abbandona l’orizzonte può finalmente dilatarsi, in una sorta di mistico spalancamento: «L’Adriatico è un grande golfo di sponde che si amano, Venezia non è superba regina ma repubblica marinara sorella di Ancona e Ragusa, il fico si tende fra celeste e terrestre, luce e ombra di arcobaleno, la Madre con il bambino benedicente e i suoi angeli continuerà ad apparire, attirando i nostri sguardi, come quelli dei tre personaggi del quadro, verso orizzonti più grandi».

(Massimiliano Mandorlo)

MARIA GRAZIA MAIORINO, Lo sguardo che si alza, postfazione di Paolo Lagazzi, Bergamo, Moretti&Vitali, 2022, pp. 102, € 10.

Mappe #16

«La crepa che diventa una soglia». Estranei alla terra di José Tolentino Mendonça

«Coloro che pregano sono mendicanti dell’ultima ora / rovistano a fondo nel vuoto / finché il vuoto / in loro deflagra»: basterebbero questi pochi versi tratti da La strada bianca del cardinale José Tolentino Mendonça per intuire la tensione conoscitiva che percorre tutta la sua poesia, continuamente attraversata da domande radicali sul presente e sulla “terra misteriosa” che abitiamo. Mendonça, teologo e biblista con un’ampia bibliografia di opere di saggistica e spiritualità, esordisce come poeta con la raccolta Os dias contados nel 1990, anno della sua ordinazione sacerdotale, affermandosi presto come una delle voci più importanti e originali della letteratura contemporanea di lingua portoghese. Il collocarsi della sua poesia in una zona di frontiera, su una “crepa che diventa una soglia”, trova il suo più profondo compimento nella figura rivoluzionaria di Gesù, il più umano tra le creature e paradossalmente il più “estraneo” alla terra:

La figura di Gesù provoca in me uno stupore senza fine perché Egli è veramente estraneo alla terra, eppure è il più vicino all’umanità, il più umano tra le creature […] Gesù incarna nel suo stile la potenza del Verbo: sa andare oltre le frontiere, porta in sé una visione più ampia, solitaria e autentica. Controcorrente. In questo senso è davvero poeta: guarda alla realtà dislocando il suo senso in un oltre.

(Davide Brullo, La poesia è una questione di vita o di morte. Dialogo con José Tolentino, «Pangea. Rivista avventuriera di cultura & idee», 25 settembre 2023)

Estranei alla terra, pubblicato nel 2023 per Crocetti e con una prefazione di Alessandro Zaccuri, è appunto il titolo del volume che presenta al lettore italiano, con testo originale in portoghese e traduzione italiana a fronte, due dei libri più rappresentativi di José Tolentino Mendonça, La strada bianca e Teoria della frontiera. Mendonça, la cui poesia segue “le premesse della guerriglia urbana” frequentando spazi solitari e clandestini, luoghi abbandonati e in rovina o terre desolate in cui qualcosa sembra però ancora miracolosamente restare in vita, si affaccia sulla soglia della vita silenziosamente e in una posizione di radicale povertà, come leggiamo in Mani vuote: «Le mani vuote sono un soccorso nei tempi difficili / un affetto al sicuro dagli speculatori / il loro vuoto è una pietra / e a guardar bene galleggia». Così la poesia di José Tolentino Mendonça, inseguendo le tracce e i segni dell’invisibile su questa terra, si pone in una posizione di attesa e completa mendicanza, come il pellegrino che “spazza / i propri pensieri e aspetta”, guardando il vetro della sua finestra farsi improvvisamente trasparente. E, come leggiamo in Il papavero e il monaco, raccolta di haiku scaturita dall’esperienza di un viaggio in Giappone e dopo la lettura del Book of Haikus di Kerouac, con l’umile convinzione che «Adorare / è sorprendere Dio / nella più piccola briciola».

(Massimiliano Mandorlo)

José Tolentino Mendonça, Estranei alla terra, traduzione di Teresa Bartolomei; prefazione di Alessandro Zaccuri, Milano, Crocetti, 2023, pp. 181, € 17. 

Mappe #15

Nel crocevia. Avanza un’ora di luce di Enzo Cannizzo

“Che sia un libro speciale”, nel tempo torbido in cui viviamo o crediamo di vivere, perché i tempi sono sempre gli stessi, rutilanti e affollati, fangosi, sovraffollati e verbosi come le strade del centro della nostra città. A quelle strade Enzo Cannizzo è ancorato e libero, inchiodato in un angolo e con le ali spalancate nel crocevia. Un guerriero, come l’Archiloco che ha scelto in esergo, che disarma la retorica e dice la frantumazione della guerra, il suo esaurirsi. Che “la poesia è profezia del presente” lo dice a mezz’aria, parafrasando qualcuno tra un tavolo e l’altro, appena prima di spostarsi con permesso. Resta un servizio, ma innanzitutto a sé stessi, senza infingimenti, pose o assoluzioni: un nuovo libro per voltare le spalle all’arena e alla prigione del compiacimento, del riconoscimento del mondo delle lettere, della chiacchiera. Scrivere poesie, va bene, ma per cercare senza arrendersi un’accoglienza della vita. Gli occhi non puntano sulla poesia ma su ciò che accade prima e dopo e che resta ulteriore. A volte, quando questa dinamica si coagula fino a spaccare la lingua di parole, resta la traccia formale di un sedimento (concreto sedimento di luce sanguigna), e quel pensiero dominante è ormai compiuto e non trova più niente da bruciare: le parole e il ritmo allora si fanno evidenti, mettono a fuoco non sanno più forse nemmeno cosa, tanto più grande e potente è la vita che attraversa il più piccolo e oscuro vicolo della città, il libro è una scheggia arroventata che si può maneggiare, si può pubblicare. Anche Avanza un’ora di luce possiede il tempo sfinito dei libri di poesia, e di nuovo Cannizzo ci offre uno strumento che di nuovo tiene a bada l’abisso o, come scrive in questo libro, mette a dormire la notte.

Nella poesia che dà il titolo alla raccolta, là fuori avanza un’ora di luce sono dieci sillabe che resistono alla presa: è il verbo che significa “resta”, si capovolge nel suo contrario, e indica che fra un’ora sarà buio. La luce avanza, ma viene incontro il buio. Il movimento inizia dall’interno della casa, di stanza in stanza, poi giunge alla città nel momento in cui si affievolisce la sua voce fino a spegnersi. Allora lo sguardo, senza preavviso, si proietta avanti, là fuori. È un atto ingiustificato. Cosa spinge oltre, come intendere questo debole e improvviso partirsi lontano, e cosa illuminano gli ultimi due versi, quella puledra di pietra / e zoccoli fasciati: delineano i contorni di chi patisce e langue, ed evocano in chiusura delle bende che proiettano il bianco, un bagliore ancora, sulla terra, sugli esseri che la abitano, sui liquami e sull’erosione buia che sembra invincibile. Nella prima sezione, che è piovosa ed apocalittica, lo sguardo tocca una realtà esausta, avvenuto il disastro. Tutto appare nel suo crollo, ampolle esplose, crepe aperte, un cielo caduto, l’offesa quasi insostenibile di un aprile veramente crudele. C’è una risposta che accade e non pare vera: la risposta di maggio fu la rosa / la sua carne puntuale. Recuperare così un’immagine tradizionale della poesia, assegnarle una caratteristica nuova: “puntuale” è la tempestività e la definitiva estensione della rosa, tornata per la terza e ultima volta in questa prima sezione. Dove si sente per la prima volta un movimento che tornerà insistentemente nel libro, su cui tutta l’ultima sezione è poggiata: l’elenco ternario e quaternario, martellante e scazonte, che non esorbita mai il singolo verso (ma che apparirà in più versi posti in sequenza) e ruota sempre attorno all’endecasillabo. Si tratta della pulsazione sotterranea del libro, una marea terrestre che agita e lega insieme le sezioni: ferro forra carcassa è la sua prima occorrenza, ma innumerevoli saranno quelle successive. Accostamenti di suono, di timbro e di immagini evocate, come in un lungo soundcheck prima del concerto, in cui si deve accentuare gli errori per capirli ed, eventualmente, nasconderli. La forza e l’incompiutezza del libro è il continuo elencare, che prova l’accordatura, il possibile fraseggio, la capacità armonica, con risultati sorprendenti. Il fascino di questi versi è nel loro assoluto movimento, nelle soluzioni sempre diverse: barlume cosa muta rosapiaga, fosforo bitume rifrazioni, polvere corpuscolo frequenza, il papavero la serpe la rugiada, allume ellissi lumen, l’ovvio l’insulso il grassatore, dupont longines linetti. Il ritmo e la bellezza di queste inserzioni si impone presto sui testi a cui appartengono, diventando così un’unità di misura, un metro di paragone per gli altri versi più animati e mossi. Matura così, nella lettura, l’attesa dei verbi, anche indefiniti, che giungono a innescare nuove prospettive, a redimere la stasi e l’accumulo, a spalancare un orizzonte più ampio per dare direzione ai detriti: le rovine i cocci il vasellame / gli scaloni le stanze le botteghe / emersi dalla piena alla pianura. È la stessa pianura che dà il titolo, maiuscolo e corsivo, alla seconda brevissima sezione, che fa prendere il respiro tra le due estreme: sono in tutto tre poesie, che si legano alle altre due poesie in corsivo del libro, nella sezione successiva. Cannizzo non ci ha detto tutto, ha posto una trama sepolta e oscura in questo suo libro-soundcheck, spaventoso e calibrato, sapiente e senza approdo.

(Pietro Cagni)

Enzo Cannizzo, Avanza un’ora di luce, prefazione di Miguel Ángel Cuevas, Viagrande (Catania), Algra, 2023, pp. 76, € 9,50.

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