Mappe #17

«La gioia di un pensiero nascente»: Lo sguardo che si alza di Maria Grazia Maiorino

Un pensiero nascente, una sorta di letizia ritrovata nello sguardo attraversa la poesia di Maria Grazia Maiorino – bellunese ma trasferita da anni ad Ancona, con già alle spalle varie pubblicazioni di poesia, racconti e saggi di critica letteraria e collaborazioni con numerosi artisti – come la luce che torna a sfolgorare sulla città di Urbino in un giorno di festa: «segreto fra le torri come un chiostro / il giardino pensile si apre ai verdi / delle colline oltre le grandi finestre / aiuole intorno alla fontana garofanini / in fiore un profumo di rose indovinato / e altri alberelli di melograno / e tutto è lento vacillare e apprendersi / come la gioia di un pensiero nascente». Di sguardi tesi «lì dove abita la luce» è tutto percorso questo libro, nelle visioni trepidanti di un’arte che va dalla basilica di S. Eustorgio a Milano con la sua «stella / di Betlemme splendente sul campanile» al volto ligneo martoriato della Madonna di Nagasaki sopravvissuta all’atomica, alla Terra Santa con le sue annunciazioni e Magnificat fino ad arrivare ad un’incredibile e affascinante prosa dedicata ad una visita solitaria alla Pinacoteca di Ancona, dove nella visione della Pala Gozzi di Tiziano presente e infanzia si saldano miracolosamente: «Ti porta un vento nella mattina di marzo, passi veloci attenti alla strada e lo sguardo che ogni tanto si alza verso l’azzurro insolitamente terso tra le case, richiamo di un’altra luce, scende dalle montagne sulla tua città natale, detta la splendente – è quell’impronta dei ricordi più lontani, riconosciuta nell’età adulta, ora ti sembra di portare con te un lembo del mantello di Elia lasciato cadere dal cielo». Nella magia della pittura e della poesia segno artistico e parola si rincorrono, si compenetrano, e in questo mistero di bellezza a cui anche l’autrice alza lo sguardo e nuovamente si abbandona l’orizzonte può finalmente dilatarsi, in una sorta di mistico spalancamento: «L’Adriatico è un grande golfo di sponde che si amano, Venezia non è superba regina ma repubblica marinara sorella di Ancona e Ragusa, il fico si tende fra celeste e terrestre, luce e ombra di arcobaleno, la Madre con il bambino benedicente e i suoi angeli continuerà ad apparire, attirando i nostri sguardi, come quelli dei tre personaggi del quadro, verso orizzonti più grandi».

(Massimiliano Mandorlo)

MARIA GRAZIA MAIORINO, Lo sguardo che si alza, postfazione di Paolo Lagazzi, Bergamo, Moretti&Vitali, 2022, pp. 102, € 10.

Mappe #16

«La crepa che diventa una soglia». Estranei alla terra di José Tolentino Mendonça

«Coloro che pregano sono mendicanti dell’ultima ora / rovistano a fondo nel vuoto / finché il vuoto / in loro deflagra»: basterebbero questi pochi versi tratti da La strada bianca del cardinale José Tolentino Mendonça per intuire la tensione conoscitiva che percorre tutta la sua poesia, continuamente attraversata da domande radicali sul presente e sulla “terra misteriosa” che abitiamo. Mendonça, teologo e biblista con un’ampia bibliografia di opere di saggistica e spiritualità, esordisce come poeta con la raccolta Os dias contados nel 1990, anno della sua ordinazione sacerdotale, affermandosi presto come una delle voci più importanti e originali della letteratura contemporanea di lingua portoghese. Il collocarsi della sua poesia in una zona di frontiera, su una “crepa che diventa una soglia”, trova il suo più profondo compimento nella figura rivoluzionaria di Gesù, il più umano tra le creature e paradossalmente il più “estraneo” alla terra:

La figura di Gesù provoca in me uno stupore senza fine perché Egli è veramente estraneo alla terra, eppure è il più vicino all’umanità, il più umano tra le creature […] Gesù incarna nel suo stile la potenza del Verbo: sa andare oltre le frontiere, porta in sé una visione più ampia, solitaria e autentica. Controcorrente. In questo senso è davvero poeta: guarda alla realtà dislocando il suo senso in un oltre.

(Davide Brullo, La poesia è una questione di vita o di morte. Dialogo con José Tolentino, «Pangea. Rivista avventuriera di cultura & idee», 25 settembre 2023)

Estranei alla terra, pubblicato nel 2023 per Crocetti e con una prefazione di Alessandro Zaccuri, è appunto il titolo del volume che presenta al lettore italiano, con testo originale in portoghese e traduzione italiana a fronte, due dei libri più rappresentativi di José Tolentino Mendonça, La strada bianca e Teoria della frontiera. Mendonça, la cui poesia segue “le premesse della guerriglia urbana” frequentando spazi solitari e clandestini, luoghi abbandonati e in rovina o terre desolate in cui qualcosa sembra però ancora miracolosamente restare in vita, si affaccia sulla soglia della vita silenziosamente e in una posizione di radicale povertà, come leggiamo in Mani vuote: «Le mani vuote sono un soccorso nei tempi difficili / un affetto al sicuro dagli speculatori / il loro vuoto è una pietra / e a guardar bene galleggia». Così la poesia di José Tolentino Mendonça, inseguendo le tracce e i segni dell’invisibile su questa terra, si pone in una posizione di attesa e completa mendicanza, come il pellegrino che “spazza / i propri pensieri e aspetta”, guardando il vetro della sua finestra farsi improvvisamente trasparente. E, come leggiamo in Il papavero e il monaco, raccolta di haiku scaturita dall’esperienza di un viaggio in Giappone e dopo la lettura del Book of Haikus di Kerouac, con l’umile convinzione che «Adorare / è sorprendere Dio / nella più piccola briciola».

(Massimiliano Mandorlo)

José Tolentino Mendonça, Estranei alla terra, traduzione di Teresa Bartolomei; prefazione di Alessandro Zaccuri, Milano, Crocetti, 2023, pp. 181, € 17. 

Mappe #15

Nel crocevia. Avanza un’ora di luce di Enzo Cannizzo

“Che sia un libro speciale”, nel tempo torbido in cui viviamo o crediamo di vivere, perché i tempi sono sempre gli stessi, rutilanti e affollati, fangosi, sovraffollati e verbosi come le strade del centro della nostra città. A quelle strade Enzo Cannizzo è ancorato e libero, inchiodato in un angolo e con le ali spalancate nel crocevia. Un guerriero, come l’Archiloco che ha scelto in esergo, che disarma la retorica e dice la frantumazione della guerra, il suo esaurirsi. Che “la poesia è profezia del presente” lo dice a mezz’aria, parafrasando qualcuno tra un tavolo e l’altro, appena prima di spostarsi con permesso. Resta un servizio, ma innanzitutto a sé stessi, senza infingimenti, pose o assoluzioni: un nuovo libro per voltare le spalle all’arena e alla prigione del compiacimento, del riconoscimento del mondo delle lettere, della chiacchiera. Scrivere poesie, va bene, ma per cercare senza arrendersi un’accoglienza della vita. Gli occhi non puntano sulla poesia ma su ciò che accade prima e dopo e che resta ulteriore. A volte, quando questa dinamica si coagula fino a spaccare la lingua di parole, resta la traccia formale di un sedimento (concreto sedimento di luce sanguigna), e quel pensiero dominante è ormai compiuto e non trova più niente da bruciare: le parole e il ritmo allora si fanno evidenti, mettono a fuoco non sanno più forse nemmeno cosa, tanto più grande e potente è la vita che attraversa il più piccolo e oscuro vicolo della città, il libro è una scheggia arroventata che si può maneggiare, si può pubblicare. Anche Avanza un’ora di luce possiede il tempo sfinito dei libri di poesia, e di nuovo Cannizzo ci offre uno strumento che di nuovo tiene a bada l’abisso o, come scrive in questo libro, mette a dormire la notte.

Nella poesia che dà il titolo alla raccolta, là fuori avanza un’ora di luce sono dieci sillabe che resistono alla presa: è il verbo che significa “resta”, si capovolge nel suo contrario, e indica che fra un’ora sarà buio. La luce avanza, ma viene incontro il buio. Il movimento inizia dall’interno della casa, di stanza in stanza, poi giunge alla città nel momento in cui si affievolisce la sua voce fino a spegnersi. Allora lo sguardo, senza preavviso, si proietta avanti, là fuori. È un atto ingiustificato. Cosa spinge oltre, come intendere questo debole e improvviso partirsi lontano, e cosa illuminano gli ultimi due versi, quella puledra di pietra / e zoccoli fasciati: delineano i contorni di chi patisce e langue, ed evocano in chiusura delle bende che proiettano il bianco, un bagliore ancora, sulla terra, sugli esseri che la abitano, sui liquami e sull’erosione buia che sembra invincibile. Nella prima sezione, che è piovosa ed apocalittica, lo sguardo tocca una realtà esausta, avvenuto il disastro. Tutto appare nel suo crollo, ampolle esplose, crepe aperte, un cielo caduto, l’offesa quasi insostenibile di un aprile veramente crudele. C’è una risposta che accade e non pare vera: la risposta di maggio fu la rosa / la sua carne puntuale. Recuperare così un’immagine tradizionale della poesia, assegnarle una caratteristica nuova: “puntuale” è la tempestività e la definitiva estensione della rosa, tornata per la terza e ultima volta in questa prima sezione. Dove si sente per la prima volta un movimento che tornerà insistentemente nel libro, su cui tutta l’ultima sezione è poggiata: l’elenco ternario e quaternario, martellante e scazonte, che non esorbita mai il singolo verso (ma che apparirà in più versi posti in sequenza) e ruota sempre attorno all’endecasillabo. Si tratta della pulsazione sotterranea del libro, una marea terrestre che agita e lega insieme le sezioni: ferro forra carcassa è la sua prima occorrenza, ma innumerevoli saranno quelle successive. Accostamenti di suono, di timbro e di immagini evocate, come in un lungo soundcheck prima del concerto, in cui si deve accentuare gli errori per capirli ed, eventualmente, nasconderli. La forza e l’incompiutezza del libro è il continuo elencare, che prova l’accordatura, il possibile fraseggio, la capacità armonica, con risultati sorprendenti. Il fascino di questi versi è nel loro assoluto movimento, nelle soluzioni sempre diverse: barlume cosa muta rosapiaga, fosforo bitume rifrazioni, polvere corpuscolo frequenza, il papavero la serpe la rugiada, allume ellissi lumen, l’ovvio l’insulso il grassatore, dupont longines linetti. Il ritmo e la bellezza di queste inserzioni si impone presto sui testi a cui appartengono, diventando così un’unità di misura, un metro di paragone per gli altri versi più animati e mossi. Matura così, nella lettura, l’attesa dei verbi, anche indefiniti, che giungono a innescare nuove prospettive, a redimere la stasi e l’accumulo, a spalancare un orizzonte più ampio per dare direzione ai detriti: le rovine i cocci il vasellame / gli scaloni le stanze le botteghe / emersi dalla piena alla pianura. È la stessa pianura che dà il titolo, maiuscolo e corsivo, alla seconda brevissima sezione, che fa prendere il respiro tra le due estreme: sono in tutto tre poesie, che si legano alle altre due poesie in corsivo del libro, nella sezione successiva. Cannizzo non ci ha detto tutto, ha posto una trama sepolta e oscura in questo suo libro-soundcheck, spaventoso e calibrato, sapiente e senza approdo.

(Pietro Cagni)

Enzo Cannizzo, Avanza un’ora di luce, prefazione di Miguel Ángel Cuevas, Viagrande (Catania), Algra, 2023, pp. 76, € 9,50.

Lineatempo #37

Dossier

Segmenti

Recensioni ed Eventi

  • La lama e la croce (a cura di Silvana Rapposelli)
  • Lingua mortal non dice (a cura di Teresa Colombo)

Mappe #14

La Zona estrema di Francesco Filia

«La poesia si compie nell’attesa alla frontiera» scriveva il filosofo e teologo Ladislaus Boros nel suo Mysterium mortis. Al limite, in una zona estrema di confine si trova anche la poesia di Francesco Filia che con Nella fine ci conduce in un territorio solcato da cieli incendiati ed esplosioni, da inverni minacciosi e paesaggi assiderati in cui «l’annuncio mite di un nuovo inizio / qualcosa ancora preme per nascere / da un antico silenzio». Come nelle sequenze cinematografiche di Stalker del russo Tarkovskij, si attraversa la “Zona” di questo libro lucido e tagliente con la sensazione di un pericolo imminente, in un estremo silenzio in cui il poeta registra con perizia chirurgica i minimi dettagli, i gesti essenziali: i vetri che vibrano     «in controluce», le «lettere sulle pareti delle aule» che «tacciono e sbiadiscono», il gesso che  «continua a stridere sull’ardesia», la «superficie scabra di un tronco tra le dune» e ancora  «Ogni gesto, / il rigare minimo di un polpastrello nella polvere». Consapevole che ogni verso, come dichiarato nella nota in appendice al libro «deve avere in sé il proprio inizio e la propria fine» la scrittura di Filia si carica di un’essenzialità visionaria che a tratti può forse ricordare un certo De Angelis. Ecco qui la poesia di Filia, la sua “biografia sommaria”: questo saper rimanere immersi nel grande enigma della vita senza facili ideologie o illusioni, tra la «lastra del cielo» che pare incombere su di noi e un «sibilo» che nonostante tutto «attraversa le nostre vite e riapre / una ferita antica e sconosciuta»   

(Massimiliano Mandorlo)

FRANCESCO FILIA, Nella fine (2019-2022), Pasturana (AL), 2023, pp. 60, € 15.

Mappe #13

Il soffio di Dio, il sorriso del poeta: Il cielo pende dai lampioni di Enzo Cannizzo

Enzo Cannizzo è un poeta che dà del tu a Dio. Anzi, la familiarità con il creatore è tale che il poeta può permettersi la minuscola («dio») con cui si cerca, con movenze ironiche e sornioni, un vecchio amico.  Volendo, si potrebbe anche parlare di un “affiatamento” cameratesco tra i due, nel nome del fiato/ruah della creazione nei confronti del quale il Cannizzo de Il cielo pende dai lampioni (Algra, 2020) sembra nutrire un’ossessione che non vorrebbe essere solo poetica; non si contano, a questo proposito, le tante occorrenze di soffio («un soffio precede la parola», p. 27; «il soffio è frana sopita», p. 58; «il soffio è argilla / frana setaccio crepa», p. 67), e ancora di fiato e di respiro, nella raccolta in questione. Qui il poeta non fa a gara con la divinità – l’esito sarebbe certamente scontato e sproporzionato – ma semmai cerca di cavarla fuori dalla solitudine impenetrabile in cui da sempre è stata relegata dall’umano. Così il Dio terribile del Testamento ebraico cede il posto a un «vecchio dio lo zoppo / pagliaccio esodato dal circo» (p. 16), ovvero «un dio vagamente vanesio» (p. 32), non certo per una deminutio blasfema dell’attributo divino, quanto per l’urgenza – religiosissima – di una “somiglianza” ancora più prossima all’umano. E cosa c’è di più specifico del riso per mezzo del quale la nostra specie, a quanto ci dicono, si distingue da tutte le altre? Il riso di cui parliamo, naturalmente, sa essere anche amaro, come ci insegna quel Qohèlet «figlio di Davide» che vede la ruah declinarsi in havèl, spreco, fumo, sostanza dello «schianto dolcissimo / di un altro mattino» (p. 14). E forse Il cielo pende dai lampioni vuole essere, prima di tutto, una forma di preghiera che dietro la maschera del cinismo clownesco avvalora la nostra dipendenza creaturale dal logos («nei nomi / passiamo // nei nomi / restiamo», p. 82); una preghiera invero disperata («il tuo respiro / non ci tiene da tempo / per mano», p. 78) che punta dritto a quel sorriso di Dio/dio intravisto solo dai mistici e dai poeti disperati che vedono le parole incendiarsi nella loro bocca.

(Pietro Russo)

ENZO CANNIZZO, Il cielo pende dai lampioni, prefazione di Maria Attanasio, postfazione di Giovanni Miraglia, Viagrande (Catania), Algra editore, 2020, pp. 136, € 12 .

LineaTempo #36

Il dossier di LineaTempo n. 36 è dedicato all’Universo fiaba, un tema popolare ed insieme colto, che viene qui presentato da un ampio e variegato spettro di contributi.

Si indaga sull’origine antica della fiaba, sui legami con la Bibbia e le tradizioni culturali, ma soprattutto sulla sua capacità, attraverso la finzione, di condurci a cogliere i nodi essenziali della vita.

Le fiabe costituiscono una grande forma di introduzione alla realtà, anche quando è deformata dalle mode culturali (come nei grandi film Disney) ed hanno un potente risvolto educativo, ben documentato da varie esperienze.

La fiaba è un mondo che non finisce di far riflettere e incuriosire perché apre all’orizzonte del Mistero.

Daria Carenzi – Per entrare nell’universo della fiaba
Emanuela Ghini – Elogio della fiaba
Giulia Regoliosi – Favola, mito, fiaba: parole e storia nel mondo antico
Silvano Petrosino – Finzione e verità della fiaba
Giuseppe Reguzzoni – I Grimm, le tradizioni culturali e la Bibbia
Emma Bacca – Hans Christian Andersen: al cuore di un dialogo tra fiaba ed esistenza
Giampaolo Pignatari – Pinocchio, Pinocchio e ancora … Pinocchio!
Sabrina Fava – La controversa diffusione della fiaba in Italia tra Otto e Novecento
Giuliana Zanello – Calvino e la fiaba. L’introduzione alle Fiabe italiane
Alberto Bordin – Fiabe Disney. Come la casa di Topolino ha plasmato la nostra mentalità fiabesca
Eleonora Fornasari – La fiaba sul grande schermo
Paolo Molinari – Il potere delle storie: alle origini dell’idea del Libro fondativo
Maria De Nigris – I temi fondanti de Le Avventure di Pinocchio. Leggere Pinocchio in classe
Laura Vitale – Fiabe che raccontano la vita. Leggere Andersen in classe
Nino Barbieri – Alla radice del mio raccontare storie

Nei Segmenti appaiono: un’accurata ricostruzione della storia e dell’ideologia del movimento di Hezbollah, l’analisi del ruolo dei paracadutisti italiani che optarono per la RSI, la presentazione di una donna del ‘700 con un grande talento culturale, M. G. Agnesi, e il confronto tra Pavese e il protagonista del film Perfect Days.

In Recensioni ed eventi vengono presentati: Contro maestro Ciliegia di Giacomo Biffi, I miei santi. In compagnia dei giganti della fede di Joseph Ratzinger, Ad occhi sgranati. Storie di papi e ambulanti, zingari ed ebrei, martiri e fondatori di Lucio Brunelli, La fine del dibattito pubblico. Come la retorica sta distruggendo la lingua della democrazia di Mark Thompson e Momenti di Marco Zelioli.

Mappe #12

Una vita da ospite: Erri De Luca e la poesia dal cuore

Che cosa c’è all’origine della scrittura poetica? L’ospite incallito, silloge del 2008 di Erri De Luca, inizia con una premessa dell’autore che toglie il punto interrogativo: la poesia nasce quando la divinità smette di dire. Stando così le cose, la poesia sarebbe 1) ascolto del silenzio, o piuttosto dell’eco della voce divina, e quindi 2) un’espressione “a immagine e somiglianza” della parola di Dio. Si potrebbe quindi concludere che un testo poetico ben riuscito ha la pretesa di riaprire il canone delle Scritture, di ri-perimetrare il volume del sacro.

La poesia de L’ospite incallito – ma si può estendere il discorso in toto alla scrittura in versi di De Luca – rifugge dai modi tradizionali della lirica per imparentarsi con le forme più irregolari di una poesia-racconto (modello supremo: Pavese) che non rinnega la sapienza del cuore di matrice biblica. Il verso lungo è così una pista di decollo-atterraggio per parole, frasi, sentenze, postille che pescano tanto dalle vicende private del poeta (si vedano la prima e l’ultima sezione del libro) quanto dalla storia collettiva, sia essa del secolo scorso oppure veterotestamentaria. È una poesia, quella di EDL, che molto spesso vuole scolpirsi come manifesto (politico, religioso, identitario) di un Io che parla da confini ampi, complessi, multipli. Ma non per questo poeta urla la propria verità; semmai si limita a qualche Consiglio, a fare cioè come il lanciatore di coltelli che non centra il bersaglio ma lo costeggia perché, appunto, «la grazia è di mancarlo» (p. 23).

L’ospite incallito ci dice già dal titolo di un poeta e di un individuo – nella scrittura di EDL le due identità non sono divisibili – che attraversa la storia senza schermi o fraintendimenti, parlando dalla sede del cuore che non conosce limitazioni (infarto a parte), mai ponendosi come padrone degli eventi («Non sei il padrone, ma l’ultimo inquilino», p. 28) o in una posa stanziale («E niente è lì dove si va, destinazione», p. 21) ma sempre sul punto di disfare la tenda e così riprendere, come la divinità “beduina” nel deserto («Non voleva saperne di edifici, la divinità, / era nomade e nomade è restata», p. 33), il cammino, o l’arrampicata.

(Pietro Russo)

Mappe #11

«Mi arrendo all’ineffabile». Il Getsemani di Pizzolitto

Nella Basilica dell’Agonia, sul Monte degli Ulivi, ci si trova davanti alla roccia sulla quale Gesù pregò la notte prima del suo arresto. Davanti alla pietra del Getsemani c’è un momento di silenzio e insieme di «resa / incondizionata», si è riportati a quel «deserto delle / cose» in cui emerge la nuda verità del nostro essere. È un silenzio che si fa insieme domanda e grido, come quello del buon ladrone San Dismas – venerato il 25 marzo nel Martirologio Romano – capace di spalancare gli abissi per entrare nel Regno, come scrive Pizzolitto: «Disma, ora trema e fiorisce l’abisso». Quello di Pizzolitto è un libro di atmosfere rarefatte e sospese, dominato da un senso profondo di mancanza che pervade il paesaggio: «Miseria di sassi e rovine / si posa il deserto di spine / sui volti, la misura / è colma, la via segreta / oggi anche i rami / tengono a stento / l’inverno». Distanze e lontananze abitano questa scrittura che non teme di nominare Dio e le molteplici «geografie» della sua sete, che accoglie continui echi, frammenti e citazioni che vanno dai Salmi al visionario Carnevali o al greco Elitis. Davanti al Getsemani ogni umana consapevolezza dell’impotenza umana di fronte al dolore – o anche del più misero tradimento – è trasformata in resa incondizionata, totale, ma resa che può mutarsi in abbandono e liberarsi in canto: «Mi arrendo all’ineffabile / ancestrale silenzio / in luminoso vuoto. / Io oggi solo in Te / trovo pace, riposo».

(Massimiliano Mandorlo)

LUCA PIZZOLITTO, Getsemani, prefazione di Roberto Deidier, Ancona, Pequod, 2023, pp. 88, € 14.

Amore e Morte in Mencarelli

Daniele Mencarelli riprende nel suo ultimo libro Degli amanti non degli eroi questa antica antinomia in modo assolutamente originale, con due racconti poetici in cui si intrecciano amore, eroismo (finto) e perdono. Questo testo è ben diverso rispetto ai libri precedenti. Il breve commento è un invito alla lettura problematizzante dell’unità stilistica del libro e del tema sotteso dall’antinomia.

Eros e Thanatos

Eros e Thanatos è l’antica antinomia di due realtà legate indissolubilmente: già ben nota ai greci e sempre riproposta nella nostra letteratura occidentale da Romeo e Giulietta a Tristano e Isotta a Mr Pinkerton e Madama Butterfly. A questo sembra alludere il nuovo libro di Daniele Mencarelli, Degli amanti non degli eroi (Mondadori 2024), a cui mi accosto proseguendo il paragone del mio sentire con quello dell’autore, come già accaduto in passato (https://www.lineatempo.eu/author/mario-lo-pinto/), senza pretesa di cimentarmi in una vera e propria critica letteraria. Mencarelli tuttavia allude a questo tema unendo in un libro un poemetto e una composizione per così dire “epica”, ben distinti tra loro. Il senso del primo poemetto – Storia d’amore – è presto delineato nella nota conclusiva:

Se dovessi pensare a un corredo funebre, qualcosa da portare con me nell’aldilà, sceglierei questa storia in versi, semplice, adolescente, messa in scena per raccontare l’amore nella sua dismisura.

Insieme ad un’altra osservazione significativa:

Nessun uomo riesce a consegnare nelle mani del nulla ciò che ama veramente senza soffrirne, senza sentire il desiderio che quella vita finita su questa terra continui su altre rive.

Una bellezza incarnata

Di fronte a questa esposizione così chiara, vien da chiedersi cosa si aggiunga nell’esprimere gli stessi concetti in poesia, un mezzo espressivo a cui il lettore normale reputa difficile l’accostarsi. Anch’io, soprattutto nella mia giovinezza, non sono stato attirato dalla poesia perché avevo in casa un “poeta”, mio padre, che mi sembrava un po’ ridicolo; e poi perché le poesie moderne mi risultavano quasi sempre incomprensibili. Quelle invece che studiavo a scuola, quelle con la metrica ed il lessico difficile, una volta imparate non sono affatto complicate. Anzi la forma in cui sono scritte aiuta ad esprimere il pensiero di chi le ha scritte andando sempre al di là delle intenzioni di chi le ha scritte. Cioè l’arte – il mezzo e il risultato artistico – supera l’artista e per questo lo scritto fatto di idea e forma indissolubilmente unite prende vita propria e supera nell’espressione il semplice testo che contiene. Del resto questo accade anche per le canzoni fatte di testo in musica, mentre è meno facile che accada nella prosa. E il poemetto d’amore di Daniele Mencarelli è proprio una storia in versi in cui tutto ruota attorno ad una evidenza, l’idea della Bellezza incarnata:

a un’altra grandezza del vedere
mi porti attraverso la mia casa,
tutto grazie a te si fa bellezza
[p. 24].

Vengono alla mente i poeti del Novecento che dicono le stesse cose – Donna, mistero senza fine bello di Gozzano – o addirittura Sant’Agostino: Tardi ti amai bellezza tanto antica e tanto nuova. Bellezza che alberga in un amore acerbo degli anni ‘80 che porta tutto il peso di quelle circostanze: delle droghe che hanno invaso la vita, della materialità che domina nei rapporti. Circostanze che non hanno la forza di snaturare quel rapporto che resta sempre segno di qualcosa di più grande. Il fine dell’amore, anche il più carnale, è solo quello di rimandare ad Altro:

tutto porta inciso il tuo nome [p. 27]

Amare Chi ti ha fatto viva
è la tua bellezza che lo vuole
se adorata nella sua cifra smisurata
[p. 38].

L’eroismo del perdono

Stupisce che nel libro sia giustapposta a questo primo componimento un’altra composizione apparentemente del tutto scollegata: l’inedito poema Lux Hotel, anch’esso una storia in versi. La vicenda richiama anche nei nomi dei protagonisti l’epopea antica trasposta in un presente ipotetico dove quelli che son creduti eroi liberatori della patria si rivelano personaggi violenti e menzogneri che si scannano a vicenda per una partita di poker nella suite dell’albergo. Ma il bisogno di difendere le apparenze, la gloria umana di quei soldati che devono rimanere gli eroi che tutti credono, induce il concierge dell’albergo, sopraggiunto a cose fatte, ad addossarsi ogni colpa e suicidarsi. Anche il narratore, un semplice cameriere testimone della mattanza, tace e accetta questa soluzione, ricavandone anzi qualche beneficio. L’Autore intende

disinnescare nel cuore degli uomini il bisogno di un eroismo da imitare per avviarsi a una nuova forma di umanesimo […] per arrivare a festeggiare l’eroismo del perdono, della compassione, del coraggio che soccorre [p. 84].

Il narratore-cameriere, di fronte alla scena insanguinata e ai cadaveri dei soldati, teme sia giunta anche per lui l’ora del castigo per tutti gli anni in cui ha disertato la vita fatta di impegno e di pena e si rende conto di qualcosa:

mi accorgo d’aver la presunzione
d’ogni altro uomo a questo mondo
che ogni accadimento nasca da lui
succeda per lui soltanto
[p. 75].

I nostri atti ci seguono
, diceva Paul Bourget, ma in qualche modo anche ci precedono formando il contesto e il contenuto della nostra esistenza di cui siamo responsabili di fronte a Dio e di fronte ai nostri fratelli uomini. Dunque amore e morte sono i protagonisti antinomici di questa opera che d’altra parte risulta stilisticamente molto compatta, alla ricerca di una modalità di espressione del tutto originale. Il verso infatti diventa quasi prosa per rendere le due storie sempre perfettamente intellegibili: una storia di amore e una storia di odio. Resta da chiedersi come l’ardore un poco sconsolato del primo poema riesca a rendersi alternativo al senso dell’orrido svolgersi della seconda vicenda. Riesca a dar senso al sacrificio del concierge, apparentemente assurdo ed esecrabile; riesca a sostenere il narratore «per arrivare a festeggiare l’eroismo del perdono».

Mencarelli qui mi sembra che intenda Amore e Morte non come coincidenti, come avviene per i greci e per tanti nostri autori, ma che l’uno debba tendere a superare l’altra. Anche l’amore fulgido ma inquieto e incostante dei nostri giorni deve prevalere sui bagliori di guerre sempre più incombenti dove gli atti di eroismo si confondono con quelli di viltà. Ricercare come questo possa accadere credo sia la prospettiva più adeguata per accostarsi a questo libro.

Mario Lo Pinto

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