Un breve racconto in cui l’autore, che ha conosciuto quei luoghi, si immedesima nel vissuto di un giovane soldato russo mandato inconsapevolmente a combattere in una guerra decisa da altri in nome di un’ideologia che sembra uscita da altri tempi.
La mano. Difficile dire da quanto tempo lui fosse lì, in quella posizione innaturale. Davanti a Ivan le prime case della città si innalzavano spettrali. Scheletri di case. Non si sarebbe detto che al di là di quelle facciate potesse ancora esistere qualche forma di vita. Eppure c’erano. E sparavano. E così Ivan dovette fermarsi. Da quanto tempo Ivan era disteso sul carro, davanti a quella città fantasma, senza potersi muovere? Per quanto tempo ancora avrebbe dovuto restare lì, in quella scomoda posizione? Sotto di lui la lamiera era rovente, ma non la sentiva. Il gelo dell’aria compensava quell’insolito calore e la neve intorno, nostalgia di altri tempi e altri luoghi, rendeva quella periferia così simile, così troppo simile alle tante periferie che Ivan aveva visto girando per la Russia. In fondo tutte le periferie si assomigliano: a Mosca come a Perm, e come a San Pietroburgo, dove i suoi genitori si erano trasferiti dalla Leningradskaja Oblast’ quando lui era ancora piccolo. Per rassicurarlo di quel primo strappo gli regalarono una bellissima, potente ruspa telecomandata. A Ivan piacevano le ruspe, e piacevano le periferie. Le periferie sono grigie, ma dentro pulsa una vita intensa, senza fondo. Per questo lui non avrebbe mai più voluto abitare altrove. Di San Pietroburgo Ivan amava tutto: i ponti mobili sui canali lungo i quali aveva fatto lunghe camminate accanto a Nastia, la fortezza di Pietro e Paolo, la prospettiva Nevskij con i suoi negozi luccicanti; e il Mariinskij – una sera d’estate diedero Tchaikovsky, il lago dei Cigni, e lui ci portò Nastia – e il Palazzo d’Inverno, con tutti suoi tesori. Lui di San Pietroburgo amava particolarmente la chiesa del Salvatore sul Sangue, che racchiudeva il selciato di una storia tragica, e la splendida Tzarskoye Selo, che degli zar custodiva le passioni segrete. Quante volte, di quella storia, il vecchio prof gli aveva raccontato aneddoti e leggende, dai primi Zar alla grande guerra patriottica! Ivan ricordava perfino le inflessioni della sua voce: in quei momenti Alexandr Semenëv assumeva un tono solenne, di chi sa di dare una consegna segreta, un testamento spirituale ai propri figli: quella storia gloriosa e tragica, diceva il vecchio Semenëv, declinò, per causa di un presidente troppo debole. Ne venne poi uno peggiore, un vecchio ubriacone. Ma quando Putin prese le redini della patria, allora tutto, proprio tutto, cambiò in meglio. La Russia conobbe una ricchezza mai vista, tornò orgogliosa del suo passato. Non ci si doveva più vergognare né degli zar, né di Stalin, che aveva liberato il mondo dal nazismo: Putin ora rendeva di nuovo grande la Russia! Ivan tutto questo lo sapeva. Ci era cresciuto, Ivan, nella gioventù putiniana. Fu in quelle riunioni che vide Nastia per la prima volta: all’inizio non l’aveva quasi notata. Ma una sera che ritornavano insieme lungo la Neva, parlarono a lungo: lui le raccontò la sua storia, lei ascoltava assorta, e lo guardava. Sembrò a Ivan che il cuore pulsasse più forte. Era una strana impressione, il respiro era in affanno, ma quella sera si era sentito leggero, quasi non sentì più di avere un corpo, avrebbe potuto volare. E lei gli prese la mano…
Quando con Nastia passeggiava lungo la Neva, Ivan non poteva fare a meno di ammirare il senso di potenza che emanava dall’Aurora, che li attendeva ormeggiata alla banchina. Il vecchio incrociatore che aveva sparato il primo colpo della Rivoluzione d’Ottobre dopo un secolo era ancora lì. Una certezza, di fronte a tutto ciò che muta, che muta troppo in fretta. Tutte le volte che Ivan ci era passato da ragazzo, si immaginava marinaio. E gli tornava alla mente il vecchio Semenëv… Sì, c’erano state altre ragazze, nella vita di Ivan, ma Nastia… Nastia lo sapeva ascoltare, lo guardava e lo ascoltava. Ivan sapeva che con Nastia sarebbe potuto andare in capo al mondo.
Arrivò anche il tempo del militare. Lui che aveva sempre sognato la marina entrò nel corso per carristi. Ma non se ne pentì: il T-72 BM è davvero una gran bella bestia, e poi li porta bene, i suoi anni! Quando ci sali dentro ti senti onnipotente, senti la potenza sotto di te: ti avvolge, ti senti un dio greco! Ivan si sentiva addosso la stessa potenza che gli dava da bambino la sua ruspa.
Ivan poteva dirsi un carrista esperto, ma queste erano le esercitazioni più lunghe che avesse mai fatto. Putin disse che si doveva andare in Ucraina. A snidare i nazisti, disse. Che strana cosa! Ivan aveva imparato dal suo vecchio professore che l’Armata Rossa li aveva distrutti tutti, i nazisti. Alexandr Alxevič Semenëv queste cose le sapeva bene! Però Putin, da parte sua, non poteva sbagliarsi. Non si era mai sbagliato! Evidentemente qualcuno era rimasto, nascosto in giro per la Germania, ed ora eccoli lì, a Kiev! Bisognava fare questa cosa, bisognava snidare i nazisti e restituire l’Ucraina ai russi. Poi a casa.
Erano passati molti giorni, ma i nazisti se ne stavano ancora annidati. Dovevano essere di più del previsto, aveva pensato Ivan. Sparavano da tutte le parti. Non è che lui avesse avuto paura, no. Il suo tank lo proteggeva. Peccato però per quella posizione… E la mano… Fosse riuscito almeno a spostarla, quella mano…
Tutto aveva funzionato bene. La colonna dei carri avanzava nella neve e la strada era sgombra. Poi… fu un niente. Un sibilo, una fiammata. Il suo carro sterzò d’improvviso, e con gran rumore si fermò. Non era prudente uscire fuori, aveva pensato Ivan, ma lì dentro faceva caldo, troppo caldo. E uscì.
La vita del carrista è la vita di un topo, Ivan lo sapeva bene. Quante volte da bambino aveva ascoltato le storie di sua nonna, Irina Nikolaevič, eroina della seconda guerra mondiale. Dodici medaglie! Infermiera di guerra. Aveva il compito di andare a tirarli fuori, i carristi, quando i carri venivano colpiti. E si scorticavano le mani, le infermiere. Salivano sulla lamiera incandescente, e li tiravano fuori. Alle volte se li trascinavano sulle spalle, altre volte trovavano solo brandelli di carne… Così Ivan una cosa la sapeva, prima che gliela dicessero al corso: se il tuo carro è colpito, tu salta fuori, salta fuori! … Per la verità, a pensarci bene, quella cosa, al corso carristi, a Ivan non l’avevano detta… Gli avevano detto invece che quei carri erano fortezze inespugnabili, e lui lo sapeva: era un cavaliere antico chiuso nella sua corazza, era come una divinità, possente e indifferente davanti ai piccoli uomini che stavano là fuori.
Poi lo mandarono a questo cazzo di esercitazione. Prima si dovette caricare i carri sui vagoni ferroviari. Non finiva più quel viaggio… pianura, sempre solo pianura. Com’è grande la Russia, aveva pensato Ivan mentre immensi campi di grano gli scorrevano davanti, scorrevano, scorrevano senza fine. I carri furono scaricati e si disposero in colonna. A tutti fu dato l’ordine di scrivere sul carro una grande “Z”. I soldati ci scherzarono molto su quella “Z”. Una lettera occidentale: perché mai non in cirillico? Zeta come za: un brindisi za… già, e per chi? Per la patria! E giù vodka. Per la madre Russia! Per i carristi! E giù ancora vodka. Per le donne dei carristi! Per le amanti dei carristi!… e za pobedu: per la vittoria. E intanto scorreva la vodka … La colonna partì e fece un lungo percorso, attraversò ponti semidistrutti, strade intrise di neve e di fango, di fango e di neve. Dopo alcuni giorni il capitano disse che l’esercitazione era un’“operazione speciale”. Che differenza fa? – Si chiese Ivan. E ripresero il viaggio. Finalmente giunsero davanti ad una città. Da lontano, sembrava proprio San Pietroburgo. Non aveva nulla di diverso, salvo che mancava la Neva, e mancava il mare. I comandanti dissero che nella città si nascondevano i nazisti e si doveva andare a snidarli. Che cosa ci facevano ancora lì, i nazisti? Alexandr Semenëv gli aveva insegnato che i nazisti furono sconfitti nella gloriosa guerra patriottica del 1941-1945. Povera nonna, se fosse viva, lei che aveva rischiato la pelle per toglierli di mezzo!
Così spararono, sulla città che rinnega il suo nome. Ma quanti erano, quei nazisti? Più si sparava, e più ne rispuntavano. E venivano avanti, e miravano ai carri, con quei loro micidiali mortai che portavano a spalla. Qualcuno, da lontano, gridò verso Ivan. Gridava in una lingua che, così da lontano, gli sembrò quasi russo. “Fermatevi! – gli sembrò che dicesse – tornate a casa!”. Ma certamente era solo un’impressione: non poteva gridare in russo! Ivan lo sapeva, i nazisti non parlano russo, né ucraino. I nazisti parlano tedesco. Così sparò e sparò ancora, su quei nazisti travestiti da russi. La città fu ridotta al suo scheletro, ma quelli non mollavano. E sparavano, sparavano. Anche il nonno di Ivan aveva sparato contro i nazisti. Il nonno paterno, Ivan non fece a tempo a conoscerlo, era morto alla fine del 1986, gli dissero. A Cernobyl, dopo che aveva partecipato ai soccorsi alla centrale nucleare. Anche lui ebbe delle medaglie. Ivan sapeva che i suoi nonni avevano combattuto fino all’ultimo, nella lotta senza quartiere contro i nazisti. Adesso toccava a lui. Ma se almeno si fossero fatti vedere bene, quei nazisti… Stavano ben nascosti, nelle case degli ucraini, e non c’era modo di poter vederne uno, di tedesco.
Adesso Ivan se ne stava lì, fermo, in quella scomoda posizione, non poteva proprio muoversi. Da quanto tempo? Difficile dirlo… Ne passò dell’altro, di tempo, forse un’eternità. Finché, dietro di lui, alcune voci gli si fecero vicine: “Eccone un altro”, disse uno. La ragazza in divisa gli si avvicinò: si allungò in alto e strappò dal suo collo la piastrina di riconoscimento: “Ivan Nikolaevič Mikhaylov, nato a Kostuya il 10 marzo 1999, Leningradskaja Oblast’”. Due uomini robusti presero Ivan per le braccia e per le gambe. Lo fecero rotolare dentro ad un telo. Stavano già per sollevarlo, quando la ragazza portò loro qualcosa, avvolta dentro ad uno straccio e la depose con pietà, accanto al corpo esanime di Ivan. Con voce rotta, quasi in un soffio, disse ai suoi compagni in divisa: “Vot ruka!”. Ecco la mano. – “Spasibo, Nastia!” – rispose Vasilij, mentre con Igor portava via il pesante fagotto.
Giorgio Cavalli, Kharkiv 10 marzo 2022