Recensione di Benedetto XVI, Che cos’è il cristianesimo. Quasi un testamento spirituale, a cura di E. Guerriero e G. Gänswein, Mondadori, Milano 2023.
In questa prima parte Zardin ci accompagna nella perlustrazione del rapporto fede-ragione in ordine alla verità, svelandoci l’irriducibilità del pensiero di Joseph Ratzinger alle opposte riduzioni tradizionalista e ultra-modernista. La fede, ci dice Benedetto XVI, non è affare di puro sentimento o di puro soggettivismo: essa si presenta fin dall’origine come critica radicale all’alienazione delle antiche religioni prone ai poteri di questo mondo e come prosecuzione feconda della grande tradizione filosofica ellenistica.
L’opera intellettuale di Benedetto XVI è da tempo il campo di un conflitto di interpretazioni in cui la varietà delle opinioni di chi si pone davanti ai suoi testi finisce per produrre un effetto di appiattimento, se non di vera e propria distorsione: si enfatizza ciò che viene percepito più congeniale, in linea con i propri punti di vista precostituiti, mentre si lasciano in ombra le provocazioni che potrebbero mettere in crisi o costringere a cambiamenti salutari e, alla fine, prevale la tendenza ad annettere la sua parola in un reticolo di interessi che possono anche essere marcatamente divergenti. I conservatori accentuano gli elementi che legittimano, ai loro occhi, la difesa tenace degli assetti tradizionali, oppure mettono in evidenza, per denunciarle, le fughe in avanti che, a parere dei più oltranzisti, hanno contribuito a sgretolarli. L’esatto contrario fanno i riformisti radicali. Destra, sinistra, centro (direi soprattutto la destra degli schieramenti in cui si frammenta l’élite intellettuale) si scontrano su come piegare a proprio vantaggio la voce dell’illustre teologo assurto ai massimi vertici del governo della Chiesa di Roma. Forse è questo il destino inevitabile degli innovatori religiosi, che riescono a sporgersi al di là dagli schemi del pensiero già stabilito, e perciò disorientano, sfuggendo a una presa totalmente assimilatrice. Per contenere il rischio, l’unico rimedio è mettersi umilmente in ascolto di tutte le implicazioni racchiuse nel messaggio che ci viene consegnato, comprese le più ostiche o inaspettate: occorre disporsi a seguire la traccia oggettiva della parola offerta, invece di lasciarsi guidare dalla forza condizionante dell’autorispecchiamento.
Se si adotta questa linea di approccio, si può arrivare a sostenere che il nucleo forse più dirompente degli ultimi scritti riuniti nella raccolta pubblicata postuma, subito dopo la scomparsa di Benedetto XVI, sia la risoluta difesa della dimensione razionale presupposta dalla scelta cristiana: la fede non è una pura opzione unilaterale, ma contiene in sé (ed è giusto che continui a rivendicare) una pretesa di verità. Il nesso tra fede e ragione ‒ potremmo anche dire tra cuore e riconoscimento del vero che scaturisce dalla coscienza, interpellata dai segni della realtà che le si fa incontro ‒ è visto nei capitoli di esordio di Che cos’è il cristianesimo in una prospettiva rigorosamente storica: è dalla lezione di come il cristianesimo si è posto nel mondo, fin dalla sua prima diffusione nel contesto mediterraneo, che Benedetto XVI continua a ricavare la conferma che a essere chiamato in causa è l’accesso alla struttura ultima di ciò che è l’essere di Dio, al senso dell’esistere della creatura di fronte a lui, e quindi l’accesso alla risposta più compiuta che possa soddisfare il bisogno insito nel destino dell’uomo vivente. Ripetutamente Benedetto XVI sottolinea che l’annuncio cristiano delle origini non si è posto in continuità con il discorso delle religioni preesistenti, ma come la sua contestazione definitiva. Si partiva da una scelta di rottura, in forza della quale i testimoni della nuova fede che universalizzava il monoteismo giudaico dell’Antica Alleanza, spalancandolo alla totalità dei gentili, si proponevano di smascherare errori e camuffamenti dei culti idolatrici del politeismo antico, incardinato nelle istituzioni del potere mondano, così come l’insufficienza della legge mosaica e i limiti insuperabili delle filosofie autocostruite dall’uomo alla ricerca del volto segreto dell’Assoluto. Non a caso, scrive papa Benedetto, “per noi cristiani Gesù Cristo è il Logos di Dio, la luce che ci aiuta a distinguere tra la natura della religione [si potrebbe chiosare: della vera religione] e la sua distorsione” (p. 13). La presa di distanza si configurò, insiste l’autore, come un oltrepassamento “estremamente critico” (p. 12). A seguito dell’incarnazione, “l’unico Dio entra nella storia delle religioni e depone gli dei. […] Il cristianesimo venne percepito come liberazione dalla paura nella quale la potenza degli dei aveva imbrigliato gli uomini. In fondo, il possente mondo degli dei crollò perché entrò in scena l’unico Dio e pose termine alla loro potenza” (p. 18). L’“intera contesa della storia delle religioni” termina con “la vittoria dell’unico vero Dio sugli dei che non sono Dio” (p. 19).
Ma cosa rese possibile l’esito rivoluzionario di questo disincantamento emancipatore dei fondamenti estremi dell’esistere? Papa Benedetto su questo non nutre il minimo dubbio. Anche qui smentendo un sentire largamente diffuso tra gli stessi ammiratori che lo seguono più da vicino, la sua ricostruzione storica invita a tenere fermo che il fattore scatenante non vada cercato all’interno della sola forza trasformatrice della nuova religione cristiana, ma prima di tutto nell’alleanza che questa sentì la necessità di stabilire, nella dinamica del suo stesso costituirsi, con quanto di meglio si poteva scovare nelle risorse, pure in sé inadeguate e parziali, della sapienza filosofica elaborata dalla civiltà antica. Da questo patrimonio furono estratte le parole chiave della fede neotestamentaria, il suo linguaggio espressivo, le categorie fondamentali della dottrina sviluppata nel travaglio dei primi secoli, persino le armi della polemica contro l’illusorietà menzognera delle visioni tradizionali del mondo contro cui il cristianesimo dovette lottare per farsi spazio. Il contatto tra il monoteismo giudaico che attendeva di essere portato a compimento e la ragione fecondata dalla fioritura del pensiero greco nel contesto antico e nella grande koiné dell’ellenismo fu il vero “evento rivoluzionario” che capovolse il senso della storia universale centrata sui rapporti tra l’uomo e l’alterità non dominabile della pienezza del divino. Per questo, prosegue papa Benedetto, “la fede cristiana poté presentarsi nella storia come la religio vera”. “La pretesa di universalità del cristianesimo si basa sull’apertura della religione alla filosofia. È così che si spiega perché, nella missione sviluppatasi nell’antichità cristiana, il cristianesimo non si concepì come una religione, ma in primo luogo come prosecuzione del pensiero filosofico, vale a dire della ricerca della verità da parte dell’uomo. […] In ultima analisi il successo di questa missione si basa proprio su tale incontro. […] Questo purtroppo, nell’epoca moderna, lo si è sempre più dimenticato. La religione cristiana viene ora considerata come prosecuzione delle religioni del mondo e ritenuta essa stessa come una religione fra o sopra le altre” (tutte le ultime citazioni da p. 34-35).
Come si vede, si tratta di affermazioni molto esplicite ed estremamente impegnative, che vanno in un senso ben diverso da quanto auspicato dai riformatori che, per ricondurre alla sua fisionomia autentica un cristianesimo oggi avvertito in crisi, auspicano la sua riduzione a un non ben definito ‘nucleo essenziale’, in buona sostanza spogliato, o comunque alleggerito di contenuti razionali in senso forte, passando attraverso quella che in anni recenti veniva etichettata come la “deellenizzazione del cristianesimo”. La posizione ribadita in questi ultimi scritti di Benedetto XVI è con ogni evidenza ben diversa. Qui si parte dalla netta convinzione che “la questione della verità” vada identificata con “quella che in origine mosse i cristiani più di tutto il resto”, e che ancora oggi non può essere “messa tra parentesi”: la “rinuncia alla verità […] è letale per la fede”. “La fede perde il suo carattere vincolante e la sua serietà se tutto si riduce a simboli in fondo intercambiabili, capaci di rimandare solo da lontano all’inaccessibile mistero del divino” (p. 11). E ancora: per contrastare il rischio della degenerazione nell’intolleranza (la violenza dei totalitarismi religiosi lo conferma rischio reale anche nel presente dei nostri giorni) non si deve recedere dal principio che “il cristianesimo comprende sé stesso essenzialmente come verità e su questo fonda la sua pretesa di universalità”(p. 35; le sottolineature sono mie).
La radicalità dell’appello al sostegno della ragione ‒ una ragione ovviamente dilatata, aperta alla totalità di un vero che si svela attraversando i diaframmi che lo tenevano celato e solo oscuramente decifrabile a fatica ‒ è senza mezzi termini spiazzante, tutt’altro che uno stereotipo scontato. Passano in secondo piano le dinamiche persuasive del bello e del buono, per far di nuovo emergere il primato che chiede di presidiare lo spazio tradizionalmente riservato (o che è da restituire) al riconoscimento di ciò che è oggettivo e si impone all’evidenza per la sua trasparenza rivelatrice: si potrebbe parlare di una risoluta riproposta del primato dell’ontologia rispetto alla dimensione dell’etica e così pure rispetto all’esperienza del fascino ‘estetico’, della pura attrattiva di un gusto percepito esistenzialmente, o forse sarebbe meglio dire sentimentalmente.
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