Presentazione a più voci del libro di Giorgio Cavalli, Alla maniera dei briganti. La Grande Guerra del capitano Ettore Cavalli, Gaspari, Udine 2023
(3° premiato nella sezione “Narrativa edita” del Premio «Gen. Div. Amedeo De Cia»)
Centro PIME di Milano, Sala Girardi, 4 aprile 2023
Andrea Caspani, direttore di «LineaTempo» Giorgio Cavalli, autore e redattore di «LineaTempo» Claudio Lobbia, attore Federica Garieri, violinista Moderatore Enzo Riboni, giornalista del «Corriere della Sera» e scrittore.
Dopo un inquadramento storico di Andrea Caspani sul rapporto tra memorie personali e grande storia, il video presenta alcune letture teatrali di pagine tratte dal libro Alla maniera dei briganti. Voce narrante di Claudio Lobbia in dialogo con il violino di Federica Garieri. Le letture sono accompagnate da un ricco dialogo del giornalista-scrittore Enzo Riboni con Andrea Caspani e con Giorgio Cavalli, autore del libro.
La recensione di Mario Lo Pinto all’ultima fatica di Daniele Mencarelli ci invita ad addentrarci nella scrittura tanto densa quanto limpida di uno degli scrittori più originali di questo nostro tempo di sofferenza e solitudine, nel quale, per parafrasare un altro suo libro, tutto chiede salvezza. Ma nel caso di questo romanzo, perfino la parola salvezza sembra non poter uscire dalla gola del protagonista, almeno fino a che …Ma è possibile riavere noi dagli altri?
Nel suo ultimo romanzo Fame di aria (Mondadori, 2023) Daniele Mencarelli continua ad approfondire il tema del dolore e del suo significato.
Lo fa con un testo simile a quello di un’opera teatrale, quasi una sceneggiatura, e non è difficile immaginare che prima o poi ne venga tratto un film. Il romanzo descrive le vicende di un uomo bloccato da un guasto alla macchina in un piccolo centro insieme al figlio disabile che lui chiama beffardamente lo Scrondo; narra degli incontri di un uomo rabbioso e infelice, in fuga dagli affetti e pronto a mentire per nascondere la propria condizione e le proprie ristrettezze economiche, fino ad un epilogo inaspettato ed intenso.
Le condizioni a contorno sono quelle di un paese della provincia italiana più profonda, destinato a sparire quanto prima; l’ambiente e le cose sono le antiche suppellettili, i vecchi bar, le pensioni chiuse da tempo e riaperte per caso; simili ricordi sono vividi per chi ha già qualche anno ma son forse destinati a non essere pienamente compresi dai più giovani. Perché questo è il motivo che rende quasi familiari i racconti di Daniele, qualunque cosa racconti, il fatto di poterlo seguire riuscendo a vedere noi stessi negli spazi di un’altra Italia che perdura nella memoria.
Si può viaggiare nel tempo (atto I, scena III) è la sensazione entrando nel vecchio bar per il protagonista che ha già ripercorso le vicende del proprio doloroso accompagnare Jacopo, il figlio diciottenne autistico molto grave. Ogni cosa, fotografia ingiallita, quadri e poster, così come il mobilio, i ninnoli sopra il camino, e ancora più sopra la testa di cinghiale in bella mostra, tutto in quella sala ristorante sa di un passato andato via per sempre (I, VI). Solo il dolore non passa e non muta nel tempo.
Dentro a quelle circostanze abitano le persone che vengono in contatto con Pietro, il protagonista, e il suo fardello di dolore. E le persone chiedono di Jacopo, incuriosite o per compassione: «Perché sta così?» Ecco il momento. E il come e il cosa e il perché… «Non parla, da solo non fa nulla, si piscia e caca addosso.» La scena si svolge per arrivare a un compimento. Pietro, da grande attore, la ripete ogni volta sperando nel successo, e per lui il successo è uno solo. Il silenzio. Togliere al mondo la voglia di parlare, continuare a chiedere (I, III).
Il protagonista vive il suo dolore cercando di dominarlo – in fondo di accettarlo – da solo, senza riuscirci. Ha chiesto il miracolo: Il miracolo non è mai arrivato. Come unica risposta, da est è spuntato l’odio. Ha ricoperto tutto, i sani e i malati, la vita intera. Per anni è stato così. Poi pure l’odio è tramontato. Resta la rabbia, quando esplode (I, VIII). Odio e rabbia per il figlio, per sé stesso, per tutto.
Pietro chiede agli altri quel rispetto che, per non averlo sempre avuto, crede sia il motivo della disgrazia di Jacopo. Glielo diceva sua madre, prima di morire, che il male altrui va rispettato. Ed ecco la condanna (II, I). Anche altri personaggi mendicano rispetto, come Agata, la barista, nei confronti degli avventori e del marito defunto. «Quando era vivo Arturo qui dentro non volava una mosca, c’era educazione, poi lui è morto e ora certi omuncoli pensano di fare come fossero a casa loro. Io sono una donna, non mi rispettano» … «La verità, però, è un’altra. Questi quattro scellerati non mi rispettano perché il primo a non farlo era Arturo» (II, VI).
Il rispetto sembra l’unico atteggiamento adeguato di fronte al male e al dolore, alla sua ineluttabilità e alla sua incomprensibilità e in fondo nel romanzo il rispetto prima o poi ognuno è costretto a darlo.
Rispetto: guardare gli altri sapendo di essere guardati a nostra volta; ma tra i personaggi non c’è apparentemente nessuno che ricorda chi è colui che ci guarda. Il rispetto si ferma alle soglie del dolore, non può fare altro, non può reggere di fronte alla desolazione. Altre malattie sono battaglie. Questa, questa è più una specie di maledizione. L’unica cosa che mi viene in mente quando lo guardo è: perché a me? Cosa ho fatto di male? (III, III).
Gaia, una presenza amica, riesce a spostare Pietro per un attimo dalle sue angosce. Pietro resta a fissarla mentre si allontana, intanto prova a dare un nome a quello stato d’animo che gli è esploso dentro improvvisamente. Eccolo il nome. Gelosia. Dopo tanto tempo, è geloso di qualcosa. Qualcuno (II, VI). Per un attimo S’era dimenticato del figlio. Una sorta di miracolo (III, V).
Questo timido spunto è l’inizio di una contrastata presa di coscienza che promette un nuovo inizio, accettando la compagnia degli altri sul nostro cammino. Nella sala ristorante ritrova Agata accanto al loro tavolo. Ha iniziato a sparecchiare. Si volta verso di lui, ha gli occhi invasi di pianto. «Guardi.» Con una mano, con il palmo aperto, leggera, sta accarezzando Jacopo.… Pietro è colpito, finge di non esserlo, non vuole dare peso alla cosa. «Quanto è bello.» Agata non smette di piangere (III, VI).
Ma è una lotta ben dura il dover ammettere che “occorre riavere noi dagli altri” come diceva Cesare Pavese. No. Questo no. Pietro con la pietà ha chiuso. Jacopo, lo Scrondo, non è bello, né buono né bravo. Vorrebbe lei, la pietà, tornargli in gola come un fiotto d’acido dallo stomaco. Ma lui glielo impedisce (III, VI).
Fino all’epilogo dura questa lotta per risolversi in circostanze che è meglio lasciare alla lettura, ben consci, come l’Autore, che queste cose non succedono solo nei romanzi.
E come Daniele scrive nei ringraziamenti, occorre volgere lo sguardo anche A chi tende la mano, senza mai ricevere aiuto, o carezza. Ai dimenticati che resistono. A chi è andato giù.
In questa seconda parte della sua recensione al testo postumo del papa emerito Benedetto XVI, Zardin ci accompagna nella perlustrazione del rapporto Chiesa-stato, gettando luce sull’esigenza della libertà di coscienza come fondamento per la libera adesione alla fede, e dunque sulla contestazione di Joseph Ratzinger di qualsiasi pretesa fondamentalista di ritorno a forme attualizzate di alleanza trono-altare. La prima parte, ricordiamo, si era conclusa sulla sottolineatura da parte di Benedetto XVI del primato, nell’esperienza di una fede matura, della dimensione ontologica e veritativa sull’uomo rispetto a quelle, pur preziose, della morale e dell’estetica, troppo spesso ridotte a sentimentalismo e soggettivismo. Zardin ci mostra come l’originale agostinismo di papa Benedetto XVI non fosse una riedizione di schemi passati, ma piuttosto uno sguardo penetrante sulle esigenze di libertà e misericordia dell’uomo contemporaneo, all’interno di una dialettica sempre feconda e nuova tra fede e storia.
Su questa direttrice si innesta il secondo nodo cruciale di interesse che può essere rintracciato nei saggi entrati a comporre questa sorta di “testamento spirituale” lasciatoci da papa Benedetto, giunto al termine del suo percorso. Mi riferisco al modo in cui viene presentato l’impatto che l’appello alla sequela della verità del cristianesimo può avere sul contesto umano a cui si rivolge. Qui papa Benedetto non esita a riprendere un altro dei punti saldi della sua visione storico-teologica: nel tempo della storia, il “tempo dei pagani” (così lo definisce pensando al rapporto con la tradizione ebraica), di per sé esposto alla possibilità del rifiuto dell’alleanza con il vero Dio e la sua legge, l’accoglienza della fede cristiana non può accettare di corrompersi appoggiandosi allo scudo di tutela del potere (il potere di Cesare), e tanto meno all’imposizione costrittiva di un consenso obbligato, magari puntellato dalla violenza che aggredisce i diversi ed esautora ogni margine ipotizzabile di contestazione o di dissenso. L’intolleranza di un integrismo religioso che si fa anche pretesa di dominio globale sul mondo terrestre è antitetica rispetto allo spirito autentico della rivoluzione cristiana. Quest’ultima ha avuto come parte del suo codice genetico distintivo, poi non sempre portato a coerente dispiegamento, il compito di smantellare ogni pretesa di assolutezza della religione elevata a collante uniformatore di una comunità politico-territoriale. Lo “zelo” autoritario ed esclusivista della volontà di conquista di uno spazio umano magari recalcitrante appartiene ancora al vecchio orizzonte dell’alleanza antica (p. 33), immersa nella prospettiva a senso unico delle religioni che non avevano ancora conosciuto l’approdo al bilanciamento dialettico delle “due città” fra loro mescolate, ma allo stesso tempo distinte e non riconducibili a un unico principio di guida e di strutturazione normativa. Il contagio della fede nel Cristo redentore passava in origine e deve continuare a passare soltanto attraverso il rischio della libertà che pronuncia il suo sì di adesione alla chiamata da cui si sente percossa. Prima viene la grazia che si comunica, poi la mossa dell’io che riconosce l’inevitabilità di un cammino di immedesimazione.
In questa cornice si comprende perfettamente ‒ e qui il discorso di papa Benedetto tocca le punte di maggiore intensità coinvolgente ‒ perché la forma suprema della presenza della soggettività cristiana nel mondo non possa che coincidere con la figura del Figlio di Dio che si auto-espropria, offrendosi come carne sacrificale per la salvezza del mondo sul patibolo della croce. La straordinarietà del puro dono totale di Cristo, tutt’altro che interpretabile come sanguinosa “riparazione” in senso penale, finalizzata a sanare la frattura creata dalla colpa originaria, è il vertice della verità cristiana che si propone al mondo e, in quanto tale, reclama il sacrificio parallelo della volontà dell’uomo che le si affida. La forma di Cristo crocifisso, il Servo di Dio sofferente preconizzato dalla più ispirata letteratura profetica di Israele, è il centro verso cui tutto deve convergere, il cuore da cui si irraggiano le luci della rivelazione di Dio che sfocia nel suo culmine: al fondo della verità dell’essere non sta la potenza che fagocita e schiavizza, ma la debolezza gratuita dell’amore infinito che si dona e, donandosi, si espone alla contraddizione del farsi vittima, depredato dall’ostilità dell’uomo che può arrivare fino allo scandalo di non riconoscerlo come incarnazione del bene supremo per sé e il proprio destino.
La riconversione in senso cristocentrico della drammatica divino-umana conduce in modo diretto a introdurre il tema del primato dell’effusione del dono di misericordia del Dio trinitario al di sopra di tutto il resto. Il movimento della misericordia che si espande e attira nel suo spazio di novità redentrice l’uomo relegato nella distanza del suo limite è il perno autentico della storia del creato. La misericordia di Dio alla ricerca della salvezza dell’uomo è la fonte dell’unica “giustificazione” possibile: non quella della bilancia retributiva dei premi e dei castighi, ma dell’eccellenza sovrabbondante dell’amore senza riserve che vuole essere condiviso. È solo questa misericordia accolta e fatta fiorire nel cuore degli uomini che rigenera dall’interno la vita del mondo. All’inizio di tutto, sta il miracolo dell’amore incontenibile che si effonde e non viene mai meno: l’unica forza che va oltre le catene della morte. Essa è anche all’origine della missione cristiana (p. 9). Perché solo un “amore radicale e incommensurabile” come quello sprigionato dal “corpo risuscitato del Signore crocifisso” poteva agire come “reale contrappeso […] all’incommensurabile presenza del male. […] Di fronte alla strapotenza del male solo un amore infinito poteva bastare, solo un’espiazione infinita” (p. 90, ma si veda anche p. 95).
Si può aggiungere un ultimo corollario di altrettanto decisivo rilievo: è anche necessario “che noi ci inseriamo in questa risposta [al nostro male, alla nostra sofferenza] che Dio ci dà mediante Cristo” (p. 95). “Il Signore ha iniziato con noi una storia d’amore e vuole riassumere in essa l’intera creazione. L’antidoto al male che minaccia noi e il mondo intero ultimamente non può che consistere nel fatto che ci abbandoniamo a questo amore. Questo è il vero antidoto al male. […] È redento chi si affida all’amore di Dio” (p. 153). Nella scia della circolarità che si instaura, si radica la “pretesa” che la fede cristiana avanza “rispetto alla vita concreta”. La fede è chiamata a cambiare la forma di questa stessa vita, a riplasmarla secondo la propria misura. La vita come tale può risorgere, e diventare così, a sua volta, fonte di irradiazione di una luce che contagia nel fragile segno della testimonianza ecclesiale missionaria. Nella sua trama ordinaria, attaccandosi al modello paradigmatico di Cristo, la vita investita dalla fede tende a generare una morale, anch’essa ancorata al riconoscimento di un bene oggettivo e ai valori di fondo che aprono al suo perseguimento. La chiave di volta non sta però nell’apparato delle regole, nel dispositivo di una legge esterna codificata. Lo stile etico, per stare in piedi, non può che essere animato da un principio unitario vivificante: ha al suo centro un amore riconosciuto a cui si corrisponde, l’attaccamento a un Dio amoroso e presente, che abita con la sua prossimità ogni circostanza per cui ci si trova a transitare. Per riassumere in una massima lapidaria: “Il Dio trino, Padre, Figlio e Spirito Santo: non presupporlo ma anteporlo” (von Balthasar, citato a p. 155). In effetti, commenta a questo riguardo Benedetto XVI, “anche nella teologia, spesso Dio viene presupposto come fosse un’ovvietà, ma concretamente di lui non ci si occupa. Il tema ‘Dio’ appare così irreale, così lontano dalle cose che ci occupano. E tuttavia cambia tutto se Dio non lo si presuppone, ma lo si antepone. Se non lo si lascia in qualche modo sullo sfondo, ma lo si riconosce come centro del nostro pensare, parlare e agire”.
Un godibile romanzo storico di Lorenzo Roberto Quaglia, con tante informazioni sulla vita quotidiana degli antichi romani e qualche salutare domanda aperta sulle origini del cristianesimo. Consigliato per i ragazzi delle scuole medie e del primo biennio delle superiori.
Arrivai a Cesarea qualche giorno prima delle Idi di marzo, all’epoca in cui Tiberio era Cesare Augusto già da sedici anni e in Giudea era prefetto Ponzio Pilato.
Così prende inizio il piccolo romanzo di Lorenzo Roberto Quaglia, impiegato di banca a Milano con il gusto della scrittura. Già forte di una serie di fortunati gialli, l’autore si cimenta ora con la storia antica, rivelando una approfondita conoscenza della vita quotidiana e della struttura della civiltà romana. Il protagonista, Marco Claudio Acuto, è un senatore romano che, giunto alla vecchiaia, nella sua villa di Taormina torna con la mente ad una lontana vicenda occorsagli appunto nel sedicesimo anno dell’impero di Augusto. Un buon cittadino romano deve avere i piedi ben saldi sul terreno, e le tante fole che circolano tra il popolo ebreo non possono certo scuotere le sicurezze guadagnate da Roma nella sua lunga storia: la filosofia val bene per i greci, che nelle loro divisioni non seppero costruire un impero, e neppure difenderlo, quando il grande Macedone ne edificò uno per loro, scioltosi però come neve al sole dopo la morte prematura di Alessandro. Fu poi Roma, col suo pragmatismo e con la sua arte politica e militare, a raccoglierne l’eredità. Dunque, che i popoli d’Oriente coltivino pure le loro fiosofie, i loro culti e le loro tradizioni, a patto però che siano sottomessi e non interferiscano con la politica di Roma. Questa era la certezza granitica di Marco Claudio Acuto e di suo fratello Valerio Claudio Bellator, comandante della guarnigione di Cesarea, quando, per un imprevedibile intreccio del caso, Claudio Acuto che da Roma era appena giunto in Palestina per far visita al fratello, si ritrovò ad assistere ad uno strano processo, nel quale ebbe luogo un confronto teso tra il prefetto e l’accusato:
‘Che cos’è la verità?’, gli domandò Pilato incrociando lo sguardo di sua moglie Claudia Procula che stava seguendo l’interrogatorio vicino alla colonna del portico. Anche lei, come molti altri, portava sul volto i segni di chi stava assistendo ad un evento particolare, straordinario, tragico. Appariva scossa e in alcuni momenti si muoveva di scatto come se il suo corpo fosse attraversato da brividi.
“La verità è dal cielo”, rispose Gesù a Pilato.
“Non c’è verità sulla terra?”
Era una domanda fin troppo facile per Pilato, cresciuto nella certezza granitica della politica e nello scetticismo dominante nel suo tempo. Il narratore non ce lo dice, ma ci lascia immaginare il tono della voce del prefetto, leggermente sprezzante, sufficientemente ironica per disdegnare questi profeti che vengono a parlare di verità quando a malapena gli uomini riescono a riconoscere che cosa sia utile per se stessi e per l’Impero. Ma quel nazareno, con la tunica sgualcita dalle violenze inflitte dalla soldataglia, malfermo sui sandali consumati da giornate di cammino, era lì a sfidarlo ancora, senza abbassare lo sguardo penetrante dietro agli zigomi tumefatti. Era lì davanti, a tener testa al prefetto, con quella sua indomita supponenza di profeta giudeo. Così, rompendo il lungo silenzio, gli rispose:
“Tu vedi come quelli che dicono la verità sono giudicati da coloro che hanno autorità sulla terra”
Per un istante, Pilato sembrò spiazzato dalla riposta di quell’uomo, così apparentemente lontano dalla figura del rivoluzionario, ma il cui sguardo era magnetico, certamente capace di affascinare e attrarre a sé masse di disperati, di gentaglia senza arte né parte, capace di tutto…
Il prefetto prese tempo per riflettere, dopo chiese a Gesù:
‘Cosa farò di te?’
‘Quello che ti è stato assegnato’
Certo! Quello che gli era stato assegnato: non c’era bisogno che quel profeta glielo dicesse! Così Pilato fece quello che doveva fare, o meglio, quello che non avrebbe dovuto fare, che nessuna legge romana gli avrebbe mai chiesto di fare, ma che gli era comunque assegnato dalla difficile situazione politica, da un sinedrio ribollente e pretenzioso, e per di più in un momento molto delicato, in cui gli zeloti rimestavano nell’ombra, pronti a colpire quando meno te l’attendevi. Gli zeloti sono, nel romanzo di Quaglia, una presenza ineffabile, come una minaccia sospesa nell’aria di cui nessuno osa parlare apertamente.
Come poi andò la storia noi lo sappiamo, ma Marco Claudio Acuto ancora non poteva saperlo, e il narratore-protagonista ci guida dentro alle progressive scoperte di quei giorni febbrili: così egli si trovò, nel giro di pochi giorni, dinanzi ad una storia letteralmente incredibile, umanamente sconvolgente. Quaglia ci accompagna con la sua scrittura dentro alla scoperta da parte di Marco Claudio Acuto di un evento inatteso e incomprensibile, che lui ha potuto intercettare solo di sfuggita, per sentito dire, e che passa attraverso i racconti di persone che si presentano ai suoi occhi del tutto assennate e ragionevoli e che proprio per questo sconcertano il protagonista, che non riesce a darsi ragione di come certi racconti di miracoli e resurrezioni possano venire da persone così stimabili: persone di rango e ragionevoli, come è Giuseppe di Arimatea, o altre più umili ma concrete, come Pietro il pescatore, o più raffinate e sensibili alla cultura, come sembra essere Giovanni. Fino ad incontrare Lazzaro, che dice di sé di essere morto e poi risorto per opera di quel Gesù che però, proprio lui, è finito croce come l’ultimo dei ladri e degli assassini.
Blaise Pascal diceva che l’apice a cui può giungere l’umana ragione è l’apertura al Mistero che lo supera. Questo concetto di apertura e di “allargamento” della ragione a qualcosa che non è prodotto o dedotto da essa stessa è uno dei maggiori lasciti dell’insegnamento di papa Benedetto XVI, su cui ci sarà molto da lavorare ancora per comprenderne il senso più profondo. Quell’espressione di Pascal, infatti, la si può intendere in modo ambivalente: o come rinuncia a un dispiegamento pieno della ragione, nel senso di un fideismo simmetricamente opposto al razionalismo; oppure come riconoscimento di una ragionevolezza del Mistero dell’esistenza e della rivelazione che accade per fede, attraverso un incontro donato, eccezionale e tuttavia umano. In questa seconda accezione sta l’idea di una ragione “allargata”, tesa a riconoscere il senso dell’avvenimento cristiano senza mai rinunciare alle proprie domande, aperta a risposte umanamente imprevedibili e incontrollabili (nel senso preciso dell’impossibilità di un preteso “dominio” sulla realtà). È con questo sguardo che un uomo del nostro tempo può ancora lasciarsi stupire dall’eccezionalità della persona storica di Gesù, come papa Benedetto ha suggerito nel suo Gesù di Nazaret, o come testimoniò Vittorio Messori nel suo Ipotesi su Gesù, libro che ne segnò la conversione dal laicismo radicale alla fede.
Con questo piccolo agile romanzo, in un centinaio di pagine Lorenzo Roberto Quaglia pone il lettore nell’orizzonte di questa stessa domanda sulla ragionevolezza della fede cristiana: Marco Claudio Acuto, che si reca in Palestina per far visita al fratello centurione nei giorni agitati della cattura e della messa a morte di Gesù, e che solo per un singolare caso viene a trovarsi nelle stanze della prefettura, come in un lampo incrocia lo sguardo del condannato e questo semplice fatto, accaduto in un processo usuale e perfino banale per un nobile romano, lo segnerà per tutta la vita: da principio nella forma di un rifiuto razionalisticamente chiuso alla ragionevolezza della fede che pure intravede in tutta la sua forza spirituale in Giuseppe di Arimatea, in Pietro, in Giovanni, in Lazzaro e nelle tre Marie. Egli cerca e incontra queste donne e questi uomini per capire meglio, di più, ciò che ha solo intravisto in un istante: vuole incontrarli per capirne l’origine di quella loro nuova certezza, così incredibile eppure così solida, sul senso della vita e della morte. E anche quando quegli eventi sono ormai lontani negli anni, nonostante permanga in lui una ragione ancora chiusa e misurante, tuttavia lo sguardo penetrante di quel giudeo incrociato un giorno davanti al prefetto di Gerusalemme lo perseguiterà per il resto della sua esistenza, tenendo aperta in lui una domanda che non si sarebbe mai più ad acquietata.
Fino a un finale inaspettato, con qualche colpo di scena…
Il libro, arricchito in appendice da un glossario dei termini e dei modi di dire latini presenti nel testo, si presta ad un lavoro didattico su più piani: nell’ambito della storia per un’introduzione alla vita quotidiana sotto l’Impero romano; nell’ambito dell’insegnamento della religione cattolica per un approccio al tema della ragionevolezza della fede secondo la categoria della fede come avvenimento; nell’ambito della letteratura per avviare i ragazzi al significato e ai diversi registri stilistici della scrittura creativa, evidenziandone gli aspetti strutturali: autore e narratore, protagonista e personaggi minori, fabula e intreccio, prolessi e analessi, ecc. Il libro può dunque essere un ottimo strumento per un lavoro multidisciplinare.
L’autore: Lorenzo Roberto Quaglia è nato nel 1966 a Milano, dove si è laureato in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi, e dove lavora come impiegato di banca. Nel 2010 segue un primo corso annuale di scrittura creativa, cui ne seguono altri, in particolare quelli organizzati dalla Scuola Flannery O’Connor presso il Centro Culturale di Milano (CMC), tenuti da Andrea Fazioli e Francesco Napoli. Dal 2011 scrive romanzi, per lo più di genere poliziesco.
Il libro: Lorenzo Roberto Quaglia, L’indagine che cambiò la vita di Marco Claudio Acuto, cittadino dell’Impero romano, Ed. Youcanprint, Lecce 2022.