Io penso che non basti una accurata ricostruzione storica per considerare un film ben riuscito.
La scelta attenta dei luoghi, dall’interno di una pieve affrescata alle stradine tortuose di un borgo fino agli interni ricostruiti in modo verosimile grazie alle testimonianze pittoriche, permette allo spettatore di immergersi veramente nella quotidianità di Dante, per non parlare degli abiti, delle armature, dei finimenti dei cavalli, del cibo di cui si nutrono i personaggi. Tutto ciò è molto accurato e va apprezzato insieme alla bravura di alcuni attori, ma, come dicevo, non basta.
Qual è lo scopo del film? Farci conoscere qualcosa di Dante, suppongo, visto anche il titolo. E che cosa scopro di Dante grazie al film? In prima battuta direi che scopro il grande amore di Boccaccio per Dante, un amore che lo porta, nonostante le sue precarie condizioni di salute, ad accettare un impegnativo incarico da parte delle autorità cittadine: andare da Firenze a Ravenna per consegnare alla figlia di Dante, monaca in quella città, una consistente somma di denaro, a tardivo riconoscimento del merito del padre. Il viaggio è faticoso, ci si deve inerpicare con un carretto su e giù per l’Appennino lungo strade appena tracciate e confidare nella frugale ospitalità di qualche convento. Boccaccio gioisce nel recuperare le tracce del passaggio di Dante esule e versa lacrime di sincera commozione su un breve autografo conservato da un uomo che ancora si ricorda del fiorentino in fuga, come pure piange a dirotto nel colloquio finale rievocando il padre con la di lui figlia.
Ma che cosa scopro di Dante? Quello che Pupi Avati ha scelto di mostrare nel film, (e sicuramente non è poco!) è un uomo innamorato della poesia e di Beatrice (ma non è nulla di più di una cotta adolescenziale!), immerso in un’epoca violenta e fratricida, alle prese con i debiti per cui l’elezione a priore potrebbe portare un po’ di sollievo; un idealista che spera, con il viaggio dal papa, di riportare la pace a Firenze, poi un uomo ramingo e solo nelle asprezze dell’esilio. Come molti altri a quel tempo.
Che cosa nel film mi aiuta a capire perché Dante è Dante e meriti ancora la nostra attenzione a settecento anni dalla sua morte, al di là degli ossequi di rito? Quello che noto di più è una mancanza, c’è infatti un aspetto che viene completamente ignorato dal film, e che secondo me non si può proprio fare a meno di tralasciare se si vuole veramente rendergli giustizia, e cioè il fatto che Dante fosse indubitabilmente un uomo eccezionale. Non avrebbe potuto scrivere la Commedia se non fosse stato un grande poeta e, soprattutto, un uomo di fede. Ebbene, nulla nel film fa anche solo sospettare che lo fosse, tutt’al più troviamo un generico misticismo, visto che a lui morente viene messo in bocca un verso del 33° canto del Paradiso: «al fine di tutti i disii mi appropinquava» oppure il fatto che la figlia monaca, finalmente raggiunta da Boccaccio a Ravenna, chiude il film con la battuta: «Lui conosceva il vero nome delle stelle», una bella epigrafe, un pochino romantica.Non è certo moralismo chiedersi che cosa resta se a Dantetogliamo la sua grandezza, come poeta e come credente, e ci limitiamo a prendere atto di tutte le esperienze drammatiche che la sorte gli ha riservato. Ma il senso di tutte quelle esperienze ci sfugge.
Se ancora oggi parliamo di Dante non è certo perché era un uomo del suo tempo (e come avrebbe potuto non esserlo?) ma proprio per quel tratto di eccezionalità, di grazia, di cui però nel film non si sospetta neppure l’esistenza.
Non sono un regista, quindi non so dire come sia possibile rendere in immagini e con una sceneggiatura determinati aspetti della personalità di un personaggio, in particolare quelli più profondi e misteriosi; forse la questione è proprio qui, si può ‘dire’ l’eccezionalità di una persona con il linguaggio del cinema?
Pupi Avati ha fatto una scelta precisa, ricostruisce intorno a Dante ambienti e situazioni in modo filologicamente ineccepibile e lascia sullo sfondo la questione invitandoci a fidarci delle lacrime di un Boccaccio-Castellitto che inevitabilmente ci muove a commozione. A noi spettatori decidere se ci basta.
Pippo
Anna Andreoni riconosce i pregi del film di Pupi Avati su Dante ma nello stesso tempo si chiede se il nostro regista, che-ricordiamolo- ha firmato pellicole di grande valore (“Magnificat”, “L’arcano incantatore”, “Il cuore altrove”, “Il cuore delle ragazze”, “I cavalieri che fecero l’impresa”), sia riuscito a rendere l’idea di Dante, grande sia come uomo e poeta che come cristiano. La domanda è legittima e pertinente. Pupi Avati infatti, che aveva voluto col suo film “demitizzare” la narrazione sul Sommo poeta per restituirlo all’uomo della strada, al popolo degli “esseri umani” perché non venisse considerato tanto genio quanto un “marziano”, potrebbe, per una sorta di eterogenesi dei fini, aver sortito l’effetto esattamente opposto: darci un Dante uomo “qualunque”, non “un grande” fra noi ma semplicemente uno di noi, uno come noi. Scrive infatti Andreoni:”Se ancora oggi parliamo di Dante non è certo perché era un uomo del suo tempo ma proprio per quel tratto di eccezionalità, di grazia, di cui però nel film non si sospetta neppure l’esistenza”. Non basta sì, la semplice ricostruzione dell’epoca storica per dirci chi era il sommo poeta Dante. Certo! E non basta neppure parlarci dell’amore di Dante per Beatrice per farci conoscere la bellezza della donna come segno della bellezza divina, così com’ era in effetti in Dante. L’ amore di Dante per Beatrice per come appare nel film di Pupi Avati, a detta di Andreoni, non sarebbe più che la classica infatuazione di un adolescente per una bella pulzella. Saremmo veramente lontani anni luce da colui che seppe invece parlare dell’amor “che move il sol e l’altre stelle”. Tantissime altre potrebbero essere le critiche: ad esempio, che manca completamente il richiamo alla poesia del dolce stilnuovo, che Dante inaugurò con i suoi amici-i giovani di Firenze nonché rampolli della ricca borghesia fiorentina legata ai traffici commerciali, i quali, in nome della poesia pura, (quella fatta per puro diletto di musica e parole) proprio cantando la donna come ideale di bellezza , erano in realtà in aperta polemica con i propri padri e la cultura del loro tempo, che idolatrava il successo economico e finanziario, l’accumulo delle ricchezze e la logica del do ut des. Pietro Bernardone di Francesco d’Assisi peraltro non era vissuto molti decenni prima. Ma con tutto ciò saremmo – mi corre l’obbligo di dire- sempre in un’ottica centrato sul limite del film, sulla famosa “siepe” che ” da tanta parte dell’ultimo orizzonte lo sguardo esclude”. A me al contrario è parso che Pupi Avati sia riuscito a darci il senso della grandezza di Dante , ancorché lo scopo principale del film non fosse direttamente quello, ma quello di descrivere un uomo come noi ma pure un grande fra noi! Certo, resta sempre interessante- e questa è la magia del cinema, così come di ogni altra arte- il fatto che tutti in un film possono vedere qualcosa di “più ” o di diverso da quello che vediamo noi! Vale per un film quel che per la pittura diceva il grande Munch: “Io non dipingo ciò che vedo, ma ciò che ho visto”. Mi spiego. Intanto la grandezza della fede di Dante la vedi proprio attraverso la ricostruzione storica che è fatta nel totale rispetto di quell’epoca decisamente cristiana. I cristiani non son per forza stinchi di santi, possono combinarne di porcate, essere istintivi, carnali come tutti però essere attaccati a Cristo. E questo fa la differenza. Questo era pure la grandezza del medioevo. I comuni per esempio combattevano in nome di Dio per la propria autonomia “l’un contro l’altro armati” e questo…non scandalizzava perché l’universo e il cosmo erano cristiani come le miserie umane erano cristiane! Non si dice cristiano ancor oggi per indicare l’uomo. Sì, benché si stia perdendo. Se vai a vedere “Il nome della rosa” di Umberto Eco, la ricostruzione storica non fa vedere la grandezza della fede di quei monaci ma solo la loro depravazione e miseria. Ergo…nel film di Avati, la resa di Dante, un grande nella fede è anche la resa di una grande epoca cristiana. Decisamente. E pertanto quando Pupi fa vedere la grande religiosità dell’epoca fa vedere nel contempo la grande fede del “suo” uomo : nn c’era solo adolescenzialita’ nella scena di Dante che incontra lo sguardo di Beatrice ma stupore per la bellezza, nel dolore dell’esilio c’era la dignità di non piegarsi all’ingiustizia; che dire della fedeltà e della fede in Dio, pur a fronte del male che si era abbattuto su di lui e i suoi affetti?