Un godibile romanzo storico di Lorenzo Roberto Quaglia, con tante informazioni sulla vita quotidiana degli antichi romani e qualche salutare domanda aperta sulle origini del cristianesimo. Consigliato per i ragazzi delle scuole medie e del primo biennio delle superiori.
Arrivai a Cesarea qualche giorno prima delle Idi di marzo, all’epoca in cui Tiberio era Cesare Augusto già da sedici anni e in Giudea era prefetto Ponzio Pilato.
Così prende inizio il piccolo romanzo di Lorenzo Roberto Quaglia, impiegato di banca a Milano con il gusto della scrittura. Già forte di una serie di fortunati gialli, l’autore si cimenta ora con la storia antica, rivelando una approfondita conoscenza della vita quotidiana e della struttura della civiltà romana. Il protagonista, Marco Claudio Acuto, è un senatore romano che, giunto alla vecchiaia, nella sua villa di Taormina torna con la mente ad una lontana vicenda occorsagli appunto nel sedicesimo anno dell’impero di Augusto. Un buon cittadino romano deve avere i piedi ben saldi sul terreno, e le tante fole che circolano tra il popolo ebreo non possono certo scuotere le sicurezze guadagnate da Roma nella sua lunga storia: la filosofia val bene per i greci, che nelle loro divisioni non seppero costruire un impero, e neppure difenderlo, quando il grande Macedone ne edificò uno per loro, scioltosi però come neve al sole dopo la morte prematura di Alessandro. Fu poi Roma, col suo pragmatismo e con la sua arte politica e militare, a raccoglierne l’eredità. Dunque, che i popoli d’Oriente coltivino pure le loro fiosofie, i loro culti e le loro tradizioni, a patto però che siano sottomessi e non interferiscano con la politica di Roma. Questa era la certezza granitica di Marco Claudio Acuto e di suo fratello Valerio Claudio Bellator, comandante della guarnigione di Cesarea, quando, per un imprevedibile intreccio del caso, Claudio Acuto che da Roma era appena giunto in Palestina per far visita al fratello, si ritrovò ad assistere ad uno strano processo, nel quale ebbe luogo un confronto teso tra il prefetto e l’accusato:
‘Che cos’è la verità?’, gli domandò Pilato incrociando lo sguardo di sua moglie Claudia Procula che stava seguendo l’interrogatorio vicino alla colonna del portico. Anche lei, come molti altri, portava sul volto i segni di chi stava assistendo ad un evento particolare, straordinario, tragico. Appariva scossa e in alcuni momenti si muoveva di scatto come se il suo corpo fosse attraversato da brividi.
“La verità è dal cielo”, rispose Gesù a Pilato.
“Non c’è verità sulla terra?”
Era una domanda fin troppo facile per Pilato, cresciuto nella certezza granitica della politica e nello scetticismo dominante nel suo tempo. Il narratore non ce lo dice, ma ci lascia immaginare il tono della voce del prefetto, leggermente sprezzante, sufficientemente ironica per disdegnare questi profeti che vengono a parlare di verità quando a malapena gli uomini riescono a riconoscere che cosa sia utile per se stessi e per l’Impero. Ma quel nazareno, con la tunica sgualcita dalle violenze inflitte dalla soldataglia, malfermo sui sandali consumati da giornate di cammino, era lì a sfidarlo ancora, senza abbassare lo sguardo penetrante dietro agli zigomi tumefatti. Era lì davanti, a tener testa al prefetto, con quella sua indomita supponenza di profeta giudeo. Così, rompendo il lungo silenzio, gli rispose:
“Tu vedi come quelli che dicono la verità sono giudicati da coloro che hanno autorità sulla terra”
Per un istante, Pilato sembrò spiazzato dalla riposta di quell’uomo, così apparentemente lontano dalla figura del rivoluzionario, ma il cui sguardo era magnetico, certamente capace di affascinare e attrarre a sé masse di disperati, di gentaglia senza arte né parte, capace di tutto…
Il prefetto prese tempo per riflettere, dopo chiese a Gesù:
‘Cosa farò di te?’
‘Quello che ti è stato assegnato’
Certo! Quello che gli era stato assegnato: non c’era bisogno che quel profeta glielo dicesse! Così Pilato fece quello che doveva fare, o meglio, quello che non avrebbe dovuto fare, che nessuna legge romana gli avrebbe mai chiesto di fare, ma che gli era comunque assegnato dalla difficile situazione politica, da un sinedrio ribollente e pretenzioso, e per di più in un momento molto delicato, in cui gli zeloti rimestavano nell’ombra, pronti a colpire quando meno te l’attendevi. Gli zeloti sono, nel romanzo di Quaglia, una presenza ineffabile, come una minaccia sospesa nell’aria di cui nessuno osa parlare apertamente.
Come poi andò la storia noi lo sappiamo, ma Marco Claudio Acuto ancora non poteva saperlo, e il narratore-protagonista ci guida dentro alle progressive scoperte di quei giorni febbrili: così egli si trovò, nel giro di pochi giorni, dinanzi ad una storia letteralmente incredibile, umanamente sconvolgente. Quaglia ci accompagna con la sua scrittura dentro alla scoperta da parte di Marco Claudio Acuto di un evento inatteso e incomprensibile, che lui ha potuto intercettare solo di sfuggita, per sentito dire, e che passa attraverso i racconti di persone che si presentano ai suoi occhi del tutto assennate e ragionevoli e che proprio per questo sconcertano il protagonista, che non riesce a darsi ragione di come certi racconti di miracoli e resurrezioni possano venire da persone così stimabili: persone di rango e ragionevoli, come è Giuseppe di Arimatea, o altre più umili ma concrete, come Pietro il pescatore, o più raffinate e sensibili alla cultura, come sembra essere Giovanni. Fino ad incontrare Lazzaro, che dice di sé di essere morto e poi risorto per opera di quel Gesù che però, proprio lui, è finito croce come l’ultimo dei ladri e degli assassini.
Blaise Pascal diceva che l’apice a cui può giungere l’umana ragione è l’apertura al Mistero che lo supera. Questo concetto di apertura e di “allargamento” della ragione a qualcosa che non è prodotto o dedotto da essa stessa è uno dei maggiori lasciti dell’insegnamento di papa Benedetto XVI, su cui ci sarà molto da lavorare ancora per comprenderne il senso più profondo. Quell’espressione di Pascal, infatti, la si può intendere in modo ambivalente: o come rinuncia a un dispiegamento pieno della ragione, nel senso di un fideismo simmetricamente opposto al razionalismo; oppure come riconoscimento di una ragionevolezza del Mistero dell’esistenza e della rivelazione che accade per fede, attraverso un incontro donato, eccezionale e tuttavia umano. In questa seconda accezione sta l’idea di una ragione “allargata”, tesa a riconoscere il senso dell’avvenimento cristiano senza mai rinunciare alle proprie domande, aperta a risposte umanamente imprevedibili e incontrollabili (nel senso preciso dell’impossibilità di un preteso “dominio” sulla realtà). È con questo sguardo che un uomo del nostro tempo può ancora lasciarsi stupire dall’eccezionalità della persona storica di Gesù, come papa Benedetto ha suggerito nel suo Gesù di Nazaret, o come testimoniò Vittorio Messori nel suo Ipotesi su Gesù, libro che ne segnò la conversione dal laicismo radicale alla fede.
Con questo piccolo agile romanzo, in un centinaio di pagine Lorenzo Roberto Quaglia pone il lettore nell’orizzonte di questa stessa domanda sulla ragionevolezza della fede cristiana: Marco Claudio Acuto, che si reca in Palestina per far visita al fratello centurione nei giorni agitati della cattura e della messa a morte di Gesù, e che solo per un singolare caso viene a trovarsi nelle stanze della prefettura, come in un lampo incrocia lo sguardo del condannato e questo semplice fatto, accaduto in un processo usuale e perfino banale per un nobile romano, lo segnerà per tutta la vita: da principio nella forma di un rifiuto razionalisticamente chiuso alla ragionevolezza della fede che pure intravede in tutta la sua forza spirituale in Giuseppe di Arimatea, in Pietro, in Giovanni, in Lazzaro e nelle tre Marie. Egli cerca e incontra queste donne e questi uomini per capire meglio, di più, ciò che ha solo intravisto in un istante: vuole incontrarli per capirne l’origine di quella loro nuova certezza, così incredibile eppure così solida, sul senso della vita e della morte. E anche quando quegli eventi sono ormai lontani negli anni, nonostante permanga in lui una ragione ancora chiusa e misurante, tuttavia lo sguardo penetrante di quel giudeo incrociato un giorno davanti al prefetto di Gerusalemme lo perseguiterà per il resto della sua esistenza, tenendo aperta in lui una domanda che non si sarebbe mai più ad acquietata.
Fino a un finale inaspettato, con qualche colpo di scena…
Il libro, arricchito in appendice da un glossario dei termini e dei modi di dire latini presenti nel testo, si presta ad un lavoro didattico su più piani: nell’ambito della storia per un’introduzione alla vita quotidiana sotto l’Impero romano; nell’ambito dell’insegnamento della religione cattolica per un approccio al tema della ragionevolezza della fede secondo la categoria della fede come avvenimento; nell’ambito della letteratura per avviare i ragazzi al significato e ai diversi registri stilistici della scrittura creativa, evidenziandone gli aspetti strutturali: autore e narratore, protagonista e personaggi minori, fabula e intreccio, prolessi e analessi, ecc. Il libro può dunque essere un ottimo strumento per un lavoro multidisciplinare.
L’autore: Lorenzo Roberto Quaglia è nato nel 1966 a Milano, dove si è laureato in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi, e dove lavora come impiegato di banca. Nel 2010 segue un primo corso annuale di scrittura creativa, cui ne seguono altri, in particolare quelli organizzati dalla Scuola Flannery O’Connor presso il Centro Culturale di Milano (CMC), tenuti da Andrea Fazioli e Francesco Napoli. Dal 2011 scrive romanzi, per lo più di genere poliziesco.
Il libro: Lorenzo Roberto Quaglia, L’indagine che cambiò la vita di Marco Claudio Acuto, cittadino dell’Impero romano, Ed. Youcanprint, Lecce 2022.
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