Autore: Massimiliano Mandorlo Pagina 1 di 2

Mappe #19

«Perché voglio omaggiare la vita». Lo spirito cuoce di Francesco Vitale

Una sorta di slancio e dinamismo di forze in movimento abita la lingua e la poesia di Francesco Vitale, giovane poeta di origini calabresi che osa per il suo libro di poesia – con una certa libertà al di fuori di certi modelli retorici e letterari – un titolo sicuramente insolito ed enigmatico, Lo spirito cuoce. Vitale cita in epigrafe un verso di Franco Loi e forse proprio Loi avrebbe apprezzato per libertà di spirito e capacità di contaminazione alcuni dei testi più riusciti – penso alla sezione Vita aperta – di questo libro: «Sono le diciannove e trentadue / e salto / perché voglio omaggiare la vita. / La cena è pronta / e il mio stomaco sorgente / richiama all’adunata / la fame. […] / Tutto è pronto / Accaduto / allo stesso modo / del dì di ieri / e il mondo è felice. / Per l’ennesima volta / non si è smentito». Vitale si interessa di musica, fotografia, cinema, letteratura giapponese e haiku e in questo libro eclettico si mette alla ricerca, spinto da un suo ritmo interiore, di quella crepa che si apre nelle cose minime ed umili e le attraversa, spalancandole alla luce: «Crepa che si apre alla luce / è bagliore è lampo / attimo di sterminata aria / fiato grande / che circonda e abbraccia / il respiro del mondo / e porta a bere la sete / di ogni particella piccola / di ogni principale nascita». Ed è appunto il mistero e la potenza della vita ad ardere e bruciare in questo libro intessuto di parole-costellazioni che celebrano senza timore una ritrovata e primordiale armonia per cui le cose possono diventare “sorelle”, in una sorta di moderno cantico francescano che aspira a cantare il «trionfo della vita / in alba grande». Omaggiare la vita, sembra che questa sia per Vitale la sorgente da cui nasce anche la poesia, quel fuoco silenzioso che fa lievitare spirito e materia: «Il mio silenzio è d’oro. / Ho ventiquattro karati di silenzio / per cento per cento per cento. / Il mio silenzio sta / sul tempo della lievitazione / è fatto di pane e farina / è grano è pagliuzze / e cuoce a fuoco lento».

(Massimiliano Mandorlo)

Francesco Vitale, Lo spirito cuoce, Roma, Edizioni Efesto, 2023, pp. 110, € 13,50.

Mappe #18

In viaggio verso Gerusalemme. Sequentia di palmiere di Sebastiano Burgaretta

In tempi così incerti e inquieti per il Medio oriente, e in particolare per tutta la Terrasanta, è utile rileggere un testo così folgorante e profondamente ispirato come il poemetto Sequentia di palmiere del siciliano Sebastiano Burgaretta (Avola 1946), poeta, saggista e studioso di tradizioni popolari siciliane con già all’attivo un’ampia bibliografia che spazia dal campo letterario a quello etnoantropologico, religioso e artistico. Con l’umiltà e la tensione conoscitiva del pellegrino – palmière nell’accezione dantesca dei pellegrini che si recano « oltre mare, là onde molte volte recano la palma» – Burgaretta si mette in viaggio verso la «luce viva» di Yerushalàim, madre di tutte le città, in una prodigiosa esplorazione di sé e del mondo in cui eternità e istante, profezia e attualità si incontrano in un flusso incandescente di lingue, citazioni, momenti e tappe diverse di un unico viaggio: «Relicario d’amore rebosante, / in volo con El Al alla matrice, / celebra il ritorno dell’amore / alla casa del portento nazareno. / Pañuelo muy sagrado de ternura / por lácrimas materne e fedeltà […]». Si tratta di un pellegrinaggio che insegue i segni vivi e presenti di un Hic le cui millenarie tracce vibrano ovunque nella terra di Palestina, come evidenzia fra’ Ugo Van Doorne nella sua prefazione al volume: «L’Hic delle iscrizioni pavimentali si iscrive ancora e sempre nella storia di tutti i giorni, di tutti i tempi, a tutte le latitudini del globo terrestre e dell’universo» (p. 21). Così il pellegrino Burgaretta, nel suo diario di viaggio impetuoso e visionario, si muove tra la nuvola d’Elia sul Carmelo e l’annuncio dell’Angelo a Màryam di Nazareth, verso il «Tabor del prodigio luminoso» e la Yerushalàim «d’oro, di bronzo e di luce», «arpa» di tutti i nostri possibili canti. Mosso dal vento dello spirito cammina verso il Cenacolo e veglia con Gesù nel buio del Getsemani, affidando all’intimità del suo siciliano la descrizione di quel momento di agonizzante solitudine: «Tremava alla prova la tua carne: «ttri-bboti façisti va e-bbeni / cchê picciotti ca t’àviutu puttatu, / ma solo sei rimasto nella notte; / non seppero vegliare qui con te».

Aveva visto bene Franco Loi quando, nelle sue storiche segnalazioni letterarie sul «Domenicale» de «Il Sole 24 Ore», parlando della poesia di Burgaretta scriveva: «All’astuzia dei potenti, degli accademici, dei ricchi, degli ideologhi, il poeta contrappone la sua attesa di una rivelazione del reale, la sua inermità, la sua complicità con gli uomini semplici, la sua attenzione all’ignoto in sé e fuori di sé» (domenica 24 ottobre 2004). Di rivelazione del reale e di ascolto del mistero profondo che abita in sé e fuori di sé è infatti tutta percorsa la poesia di Burgaretta che, dopo aver cantato la Resurrezione di Cristo con le parole della liturgia greco-ortodossa e di quella in lingua araba, scrive: «Il tempio dello Spirito siamo noi. / A te nel cuore una casa resterà / nel Sion vero e definitivo, / adorato tu in spirito e verità». Al pellegrino tornato ora a casa non rimane che ritornare nell’hic quotidiano, spogliandosi di tutto ma ricevendo come dono quello dell’obbedienza, che equivale a una forma totale di ascolto: «Ora lascia, Signore, che il tuo servo / torni alla misura quotidiana. / Vibrare più di tanto non può più. / Inutili a te l’opere sue, / prendi, se puoi, l’obbedienza sola».

(Massimiliano Mandorlo)

Sebastiano Burgaretta, Sequentia di palmiere, Comiso, Archilibri, 2010, pp. 69, € 6.

Mappe #17

«La gioia di un pensiero nascente»: Lo sguardo che si alza di Maria Grazia Maiorino

Un pensiero nascente, una sorta di letizia ritrovata nello sguardo attraversa la poesia di Maria Grazia Maiorino – bellunese ma trasferita da anni ad Ancona, con già alle spalle varie pubblicazioni di poesia, racconti e saggi di critica letteraria e collaborazioni con numerosi artisti – come la luce che torna a sfolgorare sulla città di Urbino in un giorno di festa: «segreto fra le torri come un chiostro / il giardino pensile si apre ai verdi / delle colline oltre le grandi finestre / aiuole intorno alla fontana garofanini / in fiore un profumo di rose indovinato / e altri alberelli di melograno / e tutto è lento vacillare e apprendersi / come la gioia di un pensiero nascente». Di sguardi tesi «lì dove abita la luce» è tutto percorso questo libro, nelle visioni trepidanti di un’arte che va dalla basilica di S. Eustorgio a Milano con la sua «stella / di Betlemme splendente sul campanile» al volto ligneo martoriato della Madonna di Nagasaki sopravvissuta all’atomica, alla Terra Santa con le sue annunciazioni e Magnificat fino ad arrivare ad un’incredibile e affascinante prosa dedicata ad una visita solitaria alla Pinacoteca di Ancona, dove nella visione della Pala Gozzi di Tiziano presente e infanzia si saldano miracolosamente: «Ti porta un vento nella mattina di marzo, passi veloci attenti alla strada e lo sguardo che ogni tanto si alza verso l’azzurro insolitamente terso tra le case, richiamo di un’altra luce, scende dalle montagne sulla tua città natale, detta la splendente – è quell’impronta dei ricordi più lontani, riconosciuta nell’età adulta, ora ti sembra di portare con te un lembo del mantello di Elia lasciato cadere dal cielo». Nella magia della pittura e della poesia segno artistico e parola si rincorrono, si compenetrano, e in questo mistero di bellezza a cui anche l’autrice alza lo sguardo e nuovamente si abbandona l’orizzonte può finalmente dilatarsi, in una sorta di mistico spalancamento: «L’Adriatico è un grande golfo di sponde che si amano, Venezia non è superba regina ma repubblica marinara sorella di Ancona e Ragusa, il fico si tende fra celeste e terrestre, luce e ombra di arcobaleno, la Madre con il bambino benedicente e i suoi angeli continuerà ad apparire, attirando i nostri sguardi, come quelli dei tre personaggi del quadro, verso orizzonti più grandi».

(Massimiliano Mandorlo)

MARIA GRAZIA MAIORINO, Lo sguardo che si alza, postfazione di Paolo Lagazzi, Bergamo, Moretti&Vitali, 2022, pp. 102, € 10.

Mappe #16

«La crepa che diventa una soglia». Estranei alla terra di José Tolentino Mendonça

«Coloro che pregano sono mendicanti dell’ultima ora / rovistano a fondo nel vuoto / finché il vuoto / in loro deflagra»: basterebbero questi pochi versi tratti da La strada bianca del cardinale José Tolentino Mendonça per intuire la tensione conoscitiva che percorre tutta la sua poesia, continuamente attraversata da domande radicali sul presente e sulla “terra misteriosa” che abitiamo. Mendonça, teologo e biblista con un’ampia bibliografia di opere di saggistica e spiritualità, esordisce come poeta con la raccolta Os dias contados nel 1990, anno della sua ordinazione sacerdotale, affermandosi presto come una delle voci più importanti e originali della letteratura contemporanea di lingua portoghese. Il collocarsi della sua poesia in una zona di frontiera, su una “crepa che diventa una soglia”, trova il suo più profondo compimento nella figura rivoluzionaria di Gesù, il più umano tra le creature e paradossalmente il più “estraneo” alla terra:

La figura di Gesù provoca in me uno stupore senza fine perché Egli è veramente estraneo alla terra, eppure è il più vicino all’umanità, il più umano tra le creature […] Gesù incarna nel suo stile la potenza del Verbo: sa andare oltre le frontiere, porta in sé una visione più ampia, solitaria e autentica. Controcorrente. In questo senso è davvero poeta: guarda alla realtà dislocando il suo senso in un oltre.

(Davide Brullo, La poesia è una questione di vita o di morte. Dialogo con José Tolentino, «Pangea. Rivista avventuriera di cultura & idee», 25 settembre 2023)

Estranei alla terra, pubblicato nel 2023 per Crocetti e con una prefazione di Alessandro Zaccuri, è appunto il titolo del volume che presenta al lettore italiano, con testo originale in portoghese e traduzione italiana a fronte, due dei libri più rappresentativi di José Tolentino Mendonça, La strada bianca e Teoria della frontiera. Mendonça, la cui poesia segue “le premesse della guerriglia urbana” frequentando spazi solitari e clandestini, luoghi abbandonati e in rovina o terre desolate in cui qualcosa sembra però ancora miracolosamente restare in vita, si affaccia sulla soglia della vita silenziosamente e in una posizione di radicale povertà, come leggiamo in Mani vuote: «Le mani vuote sono un soccorso nei tempi difficili / un affetto al sicuro dagli speculatori / il loro vuoto è una pietra / e a guardar bene galleggia». Così la poesia di José Tolentino Mendonça, inseguendo le tracce e i segni dell’invisibile su questa terra, si pone in una posizione di attesa e completa mendicanza, come il pellegrino che “spazza / i propri pensieri e aspetta”, guardando il vetro della sua finestra farsi improvvisamente trasparente. E, come leggiamo in Il papavero e il monaco, raccolta di haiku scaturita dall’esperienza di un viaggio in Giappone e dopo la lettura del Book of Haikus di Kerouac, con l’umile convinzione che «Adorare / è sorprendere Dio / nella più piccola briciola».

(Massimiliano Mandorlo)

José Tolentino Mendonça, Estranei alla terra, traduzione di Teresa Bartolomei; prefazione di Alessandro Zaccuri, Milano, Crocetti, 2023, pp. 181, € 17. 

Mappe #14

La Zona estrema di Francesco Filia

«La poesia si compie nell’attesa alla frontiera» scriveva il filosofo e teologo Ladislaus Boros nel suo Mysterium mortis. Al limite, in una zona estrema di confine si trova anche la poesia di Francesco Filia che con Nella fine ci conduce in un territorio solcato da cieli incendiati ed esplosioni, da inverni minacciosi e paesaggi assiderati in cui «l’annuncio mite di un nuovo inizio / qualcosa ancora preme per nascere / da un antico silenzio». Come nelle sequenze cinematografiche di Stalker del russo Tarkovskij, si attraversa la “Zona” di questo libro lucido e tagliente con la sensazione di un pericolo imminente, in un estremo silenzio in cui il poeta registra con perizia chirurgica i minimi dettagli, i gesti essenziali: i vetri che vibrano     «in controluce», le «lettere sulle pareti delle aule» che «tacciono e sbiadiscono», il gesso che  «continua a stridere sull’ardesia», la «superficie scabra di un tronco tra le dune» e ancora  «Ogni gesto, / il rigare minimo di un polpastrello nella polvere». Consapevole che ogni verso, come dichiarato nella nota in appendice al libro «deve avere in sé il proprio inizio e la propria fine» la scrittura di Filia si carica di un’essenzialità visionaria che a tratti può forse ricordare un certo De Angelis. Ecco qui la poesia di Filia, la sua “biografia sommaria”: questo saper rimanere immersi nel grande enigma della vita senza facili ideologie o illusioni, tra la «lastra del cielo» che pare incombere su di noi e un «sibilo» che nonostante tutto «attraversa le nostre vite e riapre / una ferita antica e sconosciuta»   

(Massimiliano Mandorlo)

FRANCESCO FILIA, Nella fine (2019-2022), Pasturana (AL), 2023, pp. 60, € 15.

Mappe #11

«Mi arrendo all’ineffabile». Il Getsemani di Pizzolitto

Nella Basilica dell’Agonia, sul Monte degli Ulivi, ci si trova davanti alla roccia sulla quale Gesù pregò la notte prima del suo arresto. Davanti alla pietra del Getsemani c’è un momento di silenzio e insieme di «resa / incondizionata», si è riportati a quel «deserto delle / cose» in cui emerge la nuda verità del nostro essere. È un silenzio che si fa insieme domanda e grido, come quello del buon ladrone San Dismas – venerato il 25 marzo nel Martirologio Romano – capace di spalancare gli abissi per entrare nel Regno, come scrive Pizzolitto: «Disma, ora trema e fiorisce l’abisso». Quello di Pizzolitto è un libro di atmosfere rarefatte e sospese, dominato da un senso profondo di mancanza che pervade il paesaggio: «Miseria di sassi e rovine / si posa il deserto di spine / sui volti, la misura / è colma, la via segreta / oggi anche i rami / tengono a stento / l’inverno». Distanze e lontananze abitano questa scrittura che non teme di nominare Dio e le molteplici «geografie» della sua sete, che accoglie continui echi, frammenti e citazioni che vanno dai Salmi al visionario Carnevali o al greco Elitis. Davanti al Getsemani ogni umana consapevolezza dell’impotenza umana di fronte al dolore – o anche del più misero tradimento – è trasformata in resa incondizionata, totale, ma resa che può mutarsi in abbandono e liberarsi in canto: «Mi arrendo all’ineffabile / ancestrale silenzio / in luminoso vuoto. / Io oggi solo in Te / trovo pace, riposo».

(Massimiliano Mandorlo)

LUCA PIZZOLITTO, Getsemani, prefazione di Roberto Deidier, Ancona, Pequod, 2023, pp. 88, € 14.

Mappe #10

«Con gli occhi della prima volta»: il paese nascosto di Luca Nicoletti

C’è un paese nascosto nella poesia del romagnolo Luca Nicoletti, un paese – avverte Pontiggia nella prefazione – «non solo dell’anima, ma una comunità concreta». Colpisce, in questa poesia alla ricerca di luoghi veri e familiari, di una «piccola comunità» nel nostro tempo, lo sguardo estatico che si sofferma con stupore sugli elementi animali e naturali: lucertole, uccelli, il passaggio lento dei gabbiani, i rami e i bianchi petali del pruno, i monti «grandi e protettivi». Oppure la presenza «comprensiva» ed enigmatica al tempo stesso della luna, vista «con gli occhi / della prima volta». Lo sguardo del poeta, che ha in sé gli stessi paesaggi e istanti trattenuti dalle inquadrature fotografiche della madre Rosita Nicoletti – nota fotografa riccionese – sa cantare l’incanto struggente della Riviera anche nel suo lato nascosto e silenzioso, lontano dal chiasso estivo. Così attraversiamo la «Valconca divina, abissale», San Clemente e le «poche case» di Agello, quasi invisibili, le «pietre bianche / del Coriano Ridge War Cemetery» che sembrano disegnare fantastici arabeschi. E ancora la Riviera con gli alberghi ancora chiusi e «ogni luogo abbandonato», Zandonai «viale del tempo», l’esplodere delle gemme sui rami al Parco della Resistenza o, verso il confine, il castello «senza perdono» di Gradara, Bel-Sit a Gabicce Monte con la sua terrazza immersa «in quell’abbraccio di vento». Lontane dalle parole sicure e potenti dei «dittatori nelle vite degli altri», quelle della poesia di Nicoletti sembrano porsi umilmente in discussione e in dialogo, celebrando il continuo accadimento delle cose: «inquadra l’orizzonte, il cielo / decidi quanto / radici e nulla, celeste e confinato / nulla, respiro / che aspetta il nostro sguardo / i germogli, le foglie tenere / l’illusione che ci accende».

(Massimiliano Mandorlo)

LUCA NICOLETTI, Il paese nascosto, prefazione di Giancarlo Pontiggia, Ancona, Pequod, 2019, pp. 101, € 15.

LUCA NICOLETTI, Rappresentazione della luna, Pasturana (AL), Puntoacapo, 2023, pp. 92, € 15.

Mappe #9

Il tempo sospeso di Roberto Gabellini

Un senso di profonda attesa e sospensione attraversa il nuovo libro del riminese Roberto Gabellini, che già aveva indagato il mistero della morte e del dolore con l’originale poema L’ultima marcia del tenente Péguy (Ares 2014): ci sono uomini che «camminano sospesi», ognuno è «in attesa e composto», anche la polvere è «sospesa» così come le parole sono «in sospeso». A questo senso di fragilità continua si affianca la percezione di un tempo che si consuma vertiginosamente, con un lavorio incessante che agisce sulle cose, sugli uomini e sui loro sentimenti: «svelto, un vento di sabbia», il soffio «sulla polvere che sei», «l’ombra ormai ferita» che «ha fretta, si consuma / cola lungo i muri», il «petto sfinito», la «memoria» che è «consumata»/ e il viso insieme» oppure che «sbiadisce dolorosa / tra i mazzetti di plastica sfiorita», un Dio che è  «sfiancato dal tempo» così come la «pietà» che «sfiancata / lenta s’abbandona». In questa esplorazione autobiografia del dolore Gabellini si affida a un’alternanza continua di frammenti di voci (in corsivo nel testo), quasi un coro greco che accompagna con le sue meditazioni l’azione sulla scena o voce interiore del poeta che dialoga con le profondità del proprio io: «Specchio d’amore, dell’unico dolore, che hai provato il buio, a essere solo, essere niente, insegnaci a volere, esatto, il nostro stesso niente». «Venerare ogni cosa», ossia offrire un sentimento di profonda riverenza e sacro riconoscimento anche quando si tratta – come in questo inquieto e lacerato libro di Gabellini – di scendere nelle voragini più nascoste del dolore e della morte per cantare la forza rigeneratrice dell’amore: «la carne stessa senza voce aspetta / qualcuno, ancora, che non abbia paura, / un lampo che scavi lo sguardo, le offra / una carezza, solo, una canzone; / custodisca i sogni antichi, i volti senza nome, / i pochi amori che valga ricordare».

(Massimiliano Mandorlo)

ROBERTO GABELLINI, Era questo l’amore?, postfazione di Giancarlo Pontiggia, Bergamo, Moretti & Vitali, 2023, pp. 80, € 10.

Mappe #7

Saper tradurre il fuoco. L’Apocalisse nella traduzione di Giancarlo Pontiggia

Saper tradurre il fuoco, far deflagrare in versi quel libro «di fiamme e di orrori» che è l’Apocalisse di Giovanni. Ci è riuscito Giancarlo Pontiggia – finissimo interprete del mondo classico e tra i più autorevoli poeti contemporanei – in questa nuova traduzione poetica per De Piante editore, che si inserisce in un più vasto progetto di versioni bibliche affidate a poeti, narratori e pensatori contemporanei: «E i simulacri delle cavallette erano simili / a cavalli pronti a correre in guerra, e in testa / corone simili a oro, e facce / come facce di uomini, / e capelli / come capelli di donne / e denti / come denti di leoni, / e corazze come corazze di ferro». Pontiggia sa restituire la potenza enigmatica e vertiginosa del pensiero dell’apostolo esule a Patmos, ne fa riemergere l’ardore originario inciso nella grammatica e sintassi scheggiata di quella lingua. Anche un minimo “kai”, nelle sue infinite ripetizioni, è essenziale perché il libro più abissale e incendiario della Bibbia possa tornare a rifulgere, a scintillare ancora sui «devastati emblemi del mondo occidentale».

(Massimiliano Mandorlo)

Apocalisse, nella traduzione di Giancarlo Pontiggia, Milano, De Piante, 2023, pp. 94, € 18.

Mappe #5

«Il millennio / lasciato per un’epoca diversa». Su L’amore e tutto il resto di Andrea Temporelli

Sul filo vertiginoso del pensiero, tra slittamenti e infiniti nascondimenti si muove la poesia di Andrea Temporelli – tra i fondatori della storica rivista letteraria militante «Atelier» – inseguendo una «chimica grammaticale» fatta di nomi personali, «segni» e «solchi» incisi in un vissuto carico di smarrimenti, preghiere, passioni, battaglie e scontri frontali con la storia. L’amore e tutto il resto, «costellazione provvisoria» di tutta la produzione poetica di Temporelli – alias Marco Merlin – ci conduce in una vasta e appassionata esplorazione di sé e del mondo, lì dove è ancora forse possibile «fare paradiso / di questa terra marcia». Quando l’energia vulcanica dell’intelletto sa sciogliersi in luziana naturalezza anche l’amore inseguito a lungo in queste pagine può farsi finalmente limpido: «Tu sei gli anni più belli della vita, / gioventù che non torna, / e l’amore, l’amore senza fiato. / Tu sei slancio e ferita / Presto sarai la piega delle labbra, / il solco accanto agli occhi e l’alta fronte. / Il tuo regno è di sale che corrode. / Sei la perdita in cui avanzo, il millennio / lasciato per un’epoca diversa. / Sei il proiettile puntato alle spalle / che non esplode».

(Massimiliano Mandorlo)

Andrea Temporelli, L’amore e tutto il resto, Novara, Interlinea, 2023, pp. 127, € 14.

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