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Stoner, di John Williams

Letto da Mario De Simoni

Pubblicato nel 1965, Stoner ha una storia editoriale abbastanza insolita. Il suo autore, John Williams, aveva ricevuto il premio del National Book Award, con il libro Augustus. Continuò a scrivere per tutta la vita, sino alla morte avvenuta nel 1994, ma non ottenne mai un grande successo. Non in vita, almeno. Una riedizione di Stoner del 2012 riportò sotto i riflettori un libro che aveva colpito molti lettori e numerose case editrici internazionali. Il successo di Stoner nasce da una riscoperta postuma, dalla scoperta di una qualità di scrittura esemplare e dalla proposta della vita di un uomo che non deve vincere a tutti i costi, che non deve essere un eroe del proprio tempo, ma che si offre come un uomo dalla vita quasi nascosta, ma che per questo si afferma come esempio del nostro tempo.
Due parole sull’autore John Williams: nato in una famiglia di modeste condizioni economiche del Texas, si iscrisse all’Università di Denver solo dopo la fine della seconda guerra mondiale, durante la quale aveva combattuto in India e in Birmania dal 1942 al 1945. Rimase a Denver per tutta la vita, dove insegnò letteratura inglese presso l’Università del Missouri. Poeta e narratore, John Williams è stato riscoperto negli ultimi anni, diventando un vero e proprio fenomeno di culto a livello internazionale. Tra i romanzi più celebri, oltre a Stoner e Augustus, abbiamo anche Butcher’s Crossing e Nulla, solo la notte.

Stoner è il racconto della vita di un uomo normale. Il protagonista lascia la fattoria dei genitori per recarsi all’università con l’obiettivo di conseguire un titolo di studio in Agraria:

«L’ispettore della contea dice che adesso hanno delle idee nuove, dei modi di fare le cose che ti insegnano all’università». «Vuoi davvero che vada? – fece come se sperasse in un rifiuto. È questo che vuoi?».

Nel corso degli studi incontra un anziano professore che gli fa capire che la sua inclinazione più vera è quella di insegnare:

«Ma non capisce, Mr. Stoner? – domandò – Non ha ancora capito? Lei sarà un insegnante». «Come può dirlo, come fa a saperlo?». «E’ la passione, Mr. Stoner – disse allegro Sloane – la passione che c’è in lei».

Questo è un primo aspetto interessante: la scoperta di un’inclinazione – si potrebbe dire anche di una vocazione nella vita – diversa da quella che si aspettavano sia i genitori che lui:

«Non so – disse suo padre – Non immaginavo che sarebbe andata a finire così. Pensavo di aver fatto il meglio che potevo per te, mandandoti qui. Tua madre e io abbiamo sempre fatto del nostro meglio». «Lo so – disse Stoner». Non riusciva più a guardarli negli occhi.

Stoner svolge così un ruolo importante come docente universitario, ma si direbbe diligentemente, senza grandi slanci apparenti:

Nei semplici esercizi di composizione che preparava per gli studenti coglieva le potenzialità della prosa e la sua bellezza, e non vedeva l’ora di trasmettere ai suoi allievi il senso di quelle scoperte. Ma quando arrivò il primo giorno e cominciò a spiegare alla classe, scoprì che quell’entusiasmo rimaneva nascosto dentro di lui.

Anche nei confronti della guerra, «ora che, come tutti, se la trovava davanti, scopriva dentro di sé una vasta riserva d’indifferenza». Solo quando si trova di fronte, nel suo lavoro, all’opposizione del direttore di dipartimento, per difendere il suo ruolo di insegnante ingaggia con lui uno scontro lungo e pesante. Infine, quasi inevitabilmente dopo un corteggiamento assiduo e faticoso, si prende una moglie, Edith, che gli dichiara la sua volontà di fedeltà: «Cercherò di essere una buona moglie per te, William, Cercherò». Tuttavia, nel giro di un mese Stoner realizza che il suo matrimonio è già un fallimento. Edith infatti è un soggetto apatico e quando è attiva sembra essere posseduta dal male, che la spinge a mettere Stoner in un angolo, sia nella loro casa, sia nella loro vita coniugale, sia allontanandolo da quella figlia che lei aveva fermamente voluto vivendo con lui due mesi di passione intensa e sfrenata. Una passione però che poco aveva a che fare con l’amore, e verso la quale, soprattutto nei primi anni, lui aveva nutrito un sincero affetto.

Quella di Stoner è una vita controllata, dunque, fino al giorno in cui all’improvviso compare, quasi come un’anomalia, il momento in cui lui conosce l’amore per una sua allieva, Katrine: una passione forte, coinvolgente, ma Stoner non arriva fino in fondo in questa relazione. A un certo punto fa un passo indietro, sembra quasi che preferisca proseguire in una vita priva di emozioni forti.

Quand’era giovanissimo Stoner pensava che l’amore fosse uno stato assoluto dell’essere a cui un uomo, se fortunato, poteva avere il privilegio di accedere. Durante la maturità, l’aveva invece liquidato come il paradiso di una falsa religione, da contemplare con scettica ironia, soave e navigato disprezzo, e vergognosa nostalgia. Arrivato alla mezza età, cominciava a capire che non era né un’illusione, né uno stato di grazia: lo vedeva come una parte del divenire umano, una condizione inventata e modificata momento per momento, e giorno dopo giorno, dalla volontà, dall’intelligenza e dal cuore.

Stoner si trova così, alla fine della sua vita, a desiderare qualcosa che in realtà non sa neanche lui, perché non sa darsi risposte, perché per tutta la vita non se ne è date: cosi doveva andare.

Era arrivato a un’età in cui, con intensità crescente, gli si presentava sempre la stessa domanda, di una semplicità così disarmante che non aveva gli strumenti per affrontarla. Si ritrovava a chiedersi se la sua vita fosse degna di essere vissuta.

Quando poi alla fine si trova sul letto di morte, il bilancio che tenta di fare della sua vita non gli appare affatto soddisfacente:

Spietatamente vide la sua vita come doveva apparire agli occhi di un altro. Ponderatamente, con calma, realizzò che doveva sembrare un vero fallimento. Aveva voluto l’amicizia e quell’intimità legata all’amicizia che potesse renderlo degno del genere umano. Aveva voluto l’unicità e la quieta indissolubilità del matrimonio, e non aveva saputo che farsene, tanto che si era spenta. Aveva voluto l’amore e ci aveva rinunciato, abbandonandolo al caos delle possibilità. Katerine, pensò, Katerine. Aveva voluto essere un insegnante e lo era diventato. Eppure, sapeva, lo aveva sempre saputo, che per buona parte della sua vita era stato un insegnante mediocre. Aveva sognato di mantenere una specie di integrità, una sorta di purezza incontaminata; aveva trovato il compromesso e la forza dirompente della superficialità. Aveva concepito la saggezza e al termine di quei lunghi anni aveva trovato l’ignoranza. E che altro pensò? che altro?

Il protagonista di questo romanzo apparentemente non ha nulla di attrattivo, così come gli altri personaggi del romanzo, che attraversano la loro esistenza con occhi diafani, cercando di smorzare i sentimenti già sul nascere. Ma quando il racconto finisce, ci si rende conto che potrebbe essere la vita di chiunque, descritta in modo semplice, senza slanci, ma in modo efficace, forte, e con un’elevata qualità letteraria. È il racconto dell’umano, è un romanzo su cosa significhi essere umani, in cui ciascuno può ritrovare almeno una parte di sé. Un racconto che ti coinvolge a mano a mano che lo leggi, facendoti intravvedere in ogni pagina un senso di riscatto, una possibilità di rinascita che non si avvera mai. Questa mi pare la grandezza del messaggio che l’autore sembra indicarci. All’ideale dell’eroe viene sostituito un anti-eroe che non fa cose straordinarie, che non compie imprese di grande valore. Emerge così, da questo libro, l’uomo, si potrebbe dire qualunque uomo, che vive la sua vita con umiltà, così come le circostanze gliela presentano.

Lineatempo #38

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Mappe #20

La rovina e lo stupore, quasi una preghiera: L’estremo forte degli occhi di Cettina Caliò

Le parole, quando sono misurate, muovono dal respiro e dal battito cardiaco. Lo sa il monaco che con la  ‘preghiera del cuore’ raggiunge l’Irraggiungibile e lo sa Cettina Caliò artefice di una poesia pneumatica in cui la versificazione scarna e la sillabazione franta, che da sempre contraddistinguono la sua scrittura, sono al servizio di una ricerca del respiro – e qui il genitivo è da intendersi tanto come soggetto quanto come oggetto. Non fa eccezione il suo ultimo lavoro, L’estremo forte degli occhi, dove la «magrezza del fiato» della poeta si cala negli abissi della presenza e «nello spavento della durata» (p. 17). Se vogliamo, possiamo intravedervi il filo di una catabasi, uno scandaglio del pneuma-respiro nelle scaturigini del proprio manifestarsi: «il fiato, il mio ha bisogno di indugiare sull’impronta del passo» (p. 18).

Questo “viaggio” di Caliò, forse iniziatico (in un senso che denota un nuovo inizio timidamente crivellato di luce) «attraverso il giorno che / da tutte le parti cade» (p. 29), è un approssimarsi all’esattezza del respiro («Come il fiato esatto dal peso», p. 33) mediante la complicità di una parola che sta «sul ciglio labile del nulla» (p. 35) elevato a prospettiva: «per incredulità mormorare Dio / nel buio schiantato di una stanza // e rintracciare la vita / là dove era da mai / che forte così si respirava» (p. 34). Se di ri-nascita si tratta, il titolo del libro è allora una dichiarazione di resa preliminare agli intenti di poetica: «l’anima crolla / dentro il tuo respiro // nell’estremo forte degli occhi / mai si stanca la sorte di accadere» (p. 36).

Il movimento della poesia di Cettina Caliò, volto a scoprire «del corpo / uno spazio sotterraneo / e disabitato» (p. 39), ha come asse principale questo dentro a cui la realtà esterna sembra aggrapparsi nell’estremità della visione. Il respiro è confine labile che non si lascia tracciare in positivo: «in moltitudini di fiato / imparo per negazione» (p. 49). Difetto, smottamento, crollo: la semantica della “rovina” trova dunque in L’estremo forte degli occhi tutta una declinazione del fallimento del fiato («per poi scoprirci / sfiatati», p. 54) salvo poi accorgersi – in extremis, appunto – che «la stessa bolla d’aria che d’improvviso strozzava il respiro e in spasimi minacciava la vita» (p. 62) è una caduta ma non una disfatta («passa tutto / e resta», p. 70) perché sempre ci è assicurata la possibilità dello «stupor», dello stupore che tramuta lo sfracello in grazia: «In quel poco di vento / ruvido del mio respiro / c’è sempre qualcosa che sei tu // che sempre mi stai pulsante / sulle tempie come perpetuo / avvento» (p. 73).

(Pietro Russo)

Cettina Caliò, L’estremo forte degli occhi, Milano, La nave di Teseo, 2024, pp. 80, € 11,99.

Mappe #19

«Perché voglio omaggiare la vita». Lo spirito cuoce di Francesco Vitale

Una sorta di slancio e dinamismo di forze in movimento abita la lingua e la poesia di Francesco Vitale, giovane poeta di origini calabresi che osa per il suo libro di poesia – con una certa libertà al di fuori di certi modelli retorici e letterari – un titolo sicuramente insolito ed enigmatico, Lo spirito cuoce. Vitale cita in epigrafe un verso di Franco Loi e forse proprio Loi avrebbe apprezzato per libertà di spirito e capacità di contaminazione alcuni dei testi più riusciti – penso alla sezione Vita aperta – di questo libro: «Sono le diciannove e trentadue / e salto / perché voglio omaggiare la vita. / La cena è pronta / e il mio stomaco sorgente / richiama all’adunata / la fame. […] / Tutto è pronto / Accaduto / allo stesso modo / del dì di ieri / e il mondo è felice. / Per l’ennesima volta / non si è smentito». Vitale si interessa di musica, fotografia, cinema, letteratura giapponese e haiku e in questo libro eclettico si mette alla ricerca, spinto da un suo ritmo interiore, di quella crepa che si apre nelle cose minime ed umili e le attraversa, spalancandole alla luce: «Crepa che si apre alla luce / è bagliore è lampo / attimo di sterminata aria / fiato grande / che circonda e abbraccia / il respiro del mondo / e porta a bere la sete / di ogni particella piccola / di ogni principale nascita». Ed è appunto il mistero e la potenza della vita ad ardere e bruciare in questo libro intessuto di parole-costellazioni che celebrano senza timore una ritrovata e primordiale armonia per cui le cose possono diventare “sorelle”, in una sorta di moderno cantico francescano che aspira a cantare il «trionfo della vita / in alba grande». Omaggiare la vita, sembra che questa sia per Vitale la sorgente da cui nasce anche la poesia, quel fuoco silenzioso che fa lievitare spirito e materia: «Il mio silenzio è d’oro. / Ho ventiquattro karati di silenzio / per cento per cento per cento. / Il mio silenzio sta / sul tempo della lievitazione / è fatto di pane e farina / è grano è pagliuzze / e cuoce a fuoco lento».

(Massimiliano Mandorlo)

Francesco Vitale, Lo spirito cuoce, Roma, Edizioni Efesto, 2023, pp. 110, € 13,50.

Mappe #18

In viaggio verso Gerusalemme. Sequentia di palmiere di Sebastiano Burgaretta

In tempi così incerti e inquieti per il Medio oriente, e in particolare per tutta la Terrasanta, è utile rileggere un testo così folgorante e profondamente ispirato come il poemetto Sequentia di palmiere del siciliano Sebastiano Burgaretta (Avola 1946), poeta, saggista e studioso di tradizioni popolari siciliane con già all’attivo un’ampia bibliografia che spazia dal campo letterario a quello etnoantropologico, religioso e artistico. Con l’umiltà e la tensione conoscitiva del pellegrino – palmière nell’accezione dantesca dei pellegrini che si recano « oltre mare, là onde molte volte recano la palma» – Burgaretta si mette in viaggio verso la «luce viva» di Yerushalàim, madre di tutte le città, in una prodigiosa esplorazione di sé e del mondo in cui eternità e istante, profezia e attualità si incontrano in un flusso incandescente di lingue, citazioni, momenti e tappe diverse di un unico viaggio: «Relicario d’amore rebosante, / in volo con El Al alla matrice, / celebra il ritorno dell’amore / alla casa del portento nazareno. / Pañuelo muy sagrado de ternura / por lácrimas materne e fedeltà […]». Si tratta di un pellegrinaggio che insegue i segni vivi e presenti di un Hic le cui millenarie tracce vibrano ovunque nella terra di Palestina, come evidenzia fra’ Ugo Van Doorne nella sua prefazione al volume: «L’Hic delle iscrizioni pavimentali si iscrive ancora e sempre nella storia di tutti i giorni, di tutti i tempi, a tutte le latitudini del globo terrestre e dell’universo» (p. 21). Così il pellegrino Burgaretta, nel suo diario di viaggio impetuoso e visionario, si muove tra la nuvola d’Elia sul Carmelo e l’annuncio dell’Angelo a Màryam di Nazareth, verso il «Tabor del prodigio luminoso» e la Yerushalàim «d’oro, di bronzo e di luce», «arpa» di tutti i nostri possibili canti. Mosso dal vento dello spirito cammina verso il Cenacolo e veglia con Gesù nel buio del Getsemani, affidando all’intimità del suo siciliano la descrizione di quel momento di agonizzante solitudine: «Tremava alla prova la tua carne: «ttri-bboti façisti va e-bbeni / cchê picciotti ca t’àviutu puttatu, / ma solo sei rimasto nella notte; / non seppero vegliare qui con te».

Aveva visto bene Franco Loi quando, nelle sue storiche segnalazioni letterarie sul «Domenicale» de «Il Sole 24 Ore», parlando della poesia di Burgaretta scriveva: «All’astuzia dei potenti, degli accademici, dei ricchi, degli ideologhi, il poeta contrappone la sua attesa di una rivelazione del reale, la sua inermità, la sua complicità con gli uomini semplici, la sua attenzione all’ignoto in sé e fuori di sé» (domenica 24 ottobre 2004). Di rivelazione del reale e di ascolto del mistero profondo che abita in sé e fuori di sé è infatti tutta percorsa la poesia di Burgaretta che, dopo aver cantato la Resurrezione di Cristo con le parole della liturgia greco-ortodossa e di quella in lingua araba, scrive: «Il tempio dello Spirito siamo noi. / A te nel cuore una casa resterà / nel Sion vero e definitivo, / adorato tu in spirito e verità». Al pellegrino tornato ora a casa non rimane che ritornare nell’hic quotidiano, spogliandosi di tutto ma ricevendo come dono quello dell’obbedienza, che equivale a una forma totale di ascolto: «Ora lascia, Signore, che il tuo servo / torni alla misura quotidiana. / Vibrare più di tanto non può più. / Inutili a te l’opere sue, / prendi, se puoi, l’obbedienza sola».

(Massimiliano Mandorlo)

Sebastiano Burgaretta, Sequentia di palmiere, Comiso, Archilibri, 2010, pp. 69, € 6.

Mappe #17

«La gioia di un pensiero nascente»: Lo sguardo che si alza di Maria Grazia Maiorino

Un pensiero nascente, una sorta di letizia ritrovata nello sguardo attraversa la poesia di Maria Grazia Maiorino – bellunese ma trasferita da anni ad Ancona, con già alle spalle varie pubblicazioni di poesia, racconti e saggi di critica letteraria e collaborazioni con numerosi artisti – come la luce che torna a sfolgorare sulla città di Urbino in un giorno di festa: «segreto fra le torri come un chiostro / il giardino pensile si apre ai verdi / delle colline oltre le grandi finestre / aiuole intorno alla fontana garofanini / in fiore un profumo di rose indovinato / e altri alberelli di melograno / e tutto è lento vacillare e apprendersi / come la gioia di un pensiero nascente». Di sguardi tesi «lì dove abita la luce» è tutto percorso questo libro, nelle visioni trepidanti di un’arte che va dalla basilica di S. Eustorgio a Milano con la sua «stella / di Betlemme splendente sul campanile» al volto ligneo martoriato della Madonna di Nagasaki sopravvissuta all’atomica, alla Terra Santa con le sue annunciazioni e Magnificat fino ad arrivare ad un’incredibile e affascinante prosa dedicata ad una visita solitaria alla Pinacoteca di Ancona, dove nella visione della Pala Gozzi di Tiziano presente e infanzia si saldano miracolosamente: «Ti porta un vento nella mattina di marzo, passi veloci attenti alla strada e lo sguardo che ogni tanto si alza verso l’azzurro insolitamente terso tra le case, richiamo di un’altra luce, scende dalle montagne sulla tua città natale, detta la splendente – è quell’impronta dei ricordi più lontani, riconosciuta nell’età adulta, ora ti sembra di portare con te un lembo del mantello di Elia lasciato cadere dal cielo». Nella magia della pittura e della poesia segno artistico e parola si rincorrono, si compenetrano, e in questo mistero di bellezza a cui anche l’autrice alza lo sguardo e nuovamente si abbandona l’orizzonte può finalmente dilatarsi, in una sorta di mistico spalancamento: «L’Adriatico è un grande golfo di sponde che si amano, Venezia non è superba regina ma repubblica marinara sorella di Ancona e Ragusa, il fico si tende fra celeste e terrestre, luce e ombra di arcobaleno, la Madre con il bambino benedicente e i suoi angeli continuerà ad apparire, attirando i nostri sguardi, come quelli dei tre personaggi del quadro, verso orizzonti più grandi».

(Massimiliano Mandorlo)

MARIA GRAZIA MAIORINO, Lo sguardo che si alza, postfazione di Paolo Lagazzi, Bergamo, Moretti&Vitali, 2022, pp. 102, € 10.

Mappe #16

«La crepa che diventa una soglia». Estranei alla terra di José Tolentino Mendonça

«Coloro che pregano sono mendicanti dell’ultima ora / rovistano a fondo nel vuoto / finché il vuoto / in loro deflagra»: basterebbero questi pochi versi tratti da La strada bianca del cardinale José Tolentino Mendonça per intuire la tensione conoscitiva che percorre tutta la sua poesia, continuamente attraversata da domande radicali sul presente e sulla “terra misteriosa” che abitiamo. Mendonça, teologo e biblista con un’ampia bibliografia di opere di saggistica e spiritualità, esordisce come poeta con la raccolta Os dias contados nel 1990, anno della sua ordinazione sacerdotale, affermandosi presto come una delle voci più importanti e originali della letteratura contemporanea di lingua portoghese. Il collocarsi della sua poesia in una zona di frontiera, su una “crepa che diventa una soglia”, trova il suo più profondo compimento nella figura rivoluzionaria di Gesù, il più umano tra le creature e paradossalmente il più “estraneo” alla terra:

La figura di Gesù provoca in me uno stupore senza fine perché Egli è veramente estraneo alla terra, eppure è il più vicino all’umanità, il più umano tra le creature […] Gesù incarna nel suo stile la potenza del Verbo: sa andare oltre le frontiere, porta in sé una visione più ampia, solitaria e autentica. Controcorrente. In questo senso è davvero poeta: guarda alla realtà dislocando il suo senso in un oltre.

(Davide Brullo, La poesia è una questione di vita o di morte. Dialogo con José Tolentino, «Pangea. Rivista avventuriera di cultura & idee», 25 settembre 2023)

Estranei alla terra, pubblicato nel 2023 per Crocetti e con una prefazione di Alessandro Zaccuri, è appunto il titolo del volume che presenta al lettore italiano, con testo originale in portoghese e traduzione italiana a fronte, due dei libri più rappresentativi di José Tolentino Mendonça, La strada bianca e Teoria della frontiera. Mendonça, la cui poesia segue “le premesse della guerriglia urbana” frequentando spazi solitari e clandestini, luoghi abbandonati e in rovina o terre desolate in cui qualcosa sembra però ancora miracolosamente restare in vita, si affaccia sulla soglia della vita silenziosamente e in una posizione di radicale povertà, come leggiamo in Mani vuote: «Le mani vuote sono un soccorso nei tempi difficili / un affetto al sicuro dagli speculatori / il loro vuoto è una pietra / e a guardar bene galleggia». Così la poesia di José Tolentino Mendonça, inseguendo le tracce e i segni dell’invisibile su questa terra, si pone in una posizione di attesa e completa mendicanza, come il pellegrino che “spazza / i propri pensieri e aspetta”, guardando il vetro della sua finestra farsi improvvisamente trasparente. E, come leggiamo in Il papavero e il monaco, raccolta di haiku scaturita dall’esperienza di un viaggio in Giappone e dopo la lettura del Book of Haikus di Kerouac, con l’umile convinzione che «Adorare / è sorprendere Dio / nella più piccola briciola».

(Massimiliano Mandorlo)

José Tolentino Mendonça, Estranei alla terra, traduzione di Teresa Bartolomei; prefazione di Alessandro Zaccuri, Milano, Crocetti, 2023, pp. 181, € 17. 

Mappe #15

Nel crocevia. Avanza un’ora di luce di Enzo Cannizzo

“Che sia un libro speciale”, nel tempo torbido in cui viviamo o crediamo di vivere, perché i tempi sono sempre gli stessi, rutilanti e affollati, fangosi, sovraffollati e verbosi come le strade del centro della nostra città. A quelle strade Enzo Cannizzo è ancorato e libero, inchiodato in un angolo e con le ali spalancate nel crocevia. Un guerriero, come l’Archiloco che ha scelto in esergo, che disarma la retorica e dice la frantumazione della guerra, il suo esaurirsi. Che “la poesia è profezia del presente” lo dice a mezz’aria, parafrasando qualcuno tra un tavolo e l’altro, appena prima di spostarsi con permesso. Resta un servizio, ma innanzitutto a sé stessi, senza infingimenti, pose o assoluzioni: un nuovo libro per voltare le spalle all’arena e alla prigione del compiacimento, del riconoscimento del mondo delle lettere, della chiacchiera. Scrivere poesie, va bene, ma per cercare senza arrendersi un’accoglienza della vita. Gli occhi non puntano sulla poesia ma su ciò che accade prima e dopo e che resta ulteriore. A volte, quando questa dinamica si coagula fino a spaccare la lingua di parole, resta la traccia formale di un sedimento (concreto sedimento di luce sanguigna), e quel pensiero dominante è ormai compiuto e non trova più niente da bruciare: le parole e il ritmo allora si fanno evidenti, mettono a fuoco non sanno più forse nemmeno cosa, tanto più grande e potente è la vita che attraversa il più piccolo e oscuro vicolo della città, il libro è una scheggia arroventata che si può maneggiare, si può pubblicare. Anche Avanza un’ora di luce possiede il tempo sfinito dei libri di poesia, e di nuovo Cannizzo ci offre uno strumento che di nuovo tiene a bada l’abisso o, come scrive in questo libro, mette a dormire la notte.

Nella poesia che dà il titolo alla raccolta, là fuori avanza un’ora di luce sono dieci sillabe che resistono alla presa: è il verbo che significa “resta”, si capovolge nel suo contrario, e indica che fra un’ora sarà buio. La luce avanza, ma viene incontro il buio. Il movimento inizia dall’interno della casa, di stanza in stanza, poi giunge alla città nel momento in cui si affievolisce la sua voce fino a spegnersi. Allora lo sguardo, senza preavviso, si proietta avanti, là fuori. È un atto ingiustificato. Cosa spinge oltre, come intendere questo debole e improvviso partirsi lontano, e cosa illuminano gli ultimi due versi, quella puledra di pietra / e zoccoli fasciati: delineano i contorni di chi patisce e langue, ed evocano in chiusura delle bende che proiettano il bianco, un bagliore ancora, sulla terra, sugli esseri che la abitano, sui liquami e sull’erosione buia che sembra invincibile. Nella prima sezione, che è piovosa ed apocalittica, lo sguardo tocca una realtà esausta, avvenuto il disastro. Tutto appare nel suo crollo, ampolle esplose, crepe aperte, un cielo caduto, l’offesa quasi insostenibile di un aprile veramente crudele. C’è una risposta che accade e non pare vera: la risposta di maggio fu la rosa / la sua carne puntuale. Recuperare così un’immagine tradizionale della poesia, assegnarle una caratteristica nuova: “puntuale” è la tempestività e la definitiva estensione della rosa, tornata per la terza e ultima volta in questa prima sezione. Dove si sente per la prima volta un movimento che tornerà insistentemente nel libro, su cui tutta l’ultima sezione è poggiata: l’elenco ternario e quaternario, martellante e scazonte, che non esorbita mai il singolo verso (ma che apparirà in più versi posti in sequenza) e ruota sempre attorno all’endecasillabo. Si tratta della pulsazione sotterranea del libro, una marea terrestre che agita e lega insieme le sezioni: ferro forra carcassa è la sua prima occorrenza, ma innumerevoli saranno quelle successive. Accostamenti di suono, di timbro e di immagini evocate, come in un lungo soundcheck prima del concerto, in cui si deve accentuare gli errori per capirli ed, eventualmente, nasconderli. La forza e l’incompiutezza del libro è il continuo elencare, che prova l’accordatura, il possibile fraseggio, la capacità armonica, con risultati sorprendenti. Il fascino di questi versi è nel loro assoluto movimento, nelle soluzioni sempre diverse: barlume cosa muta rosapiaga, fosforo bitume rifrazioni, polvere corpuscolo frequenza, il papavero la serpe la rugiada, allume ellissi lumen, l’ovvio l’insulso il grassatore, dupont longines linetti. Il ritmo e la bellezza di queste inserzioni si impone presto sui testi a cui appartengono, diventando così un’unità di misura, un metro di paragone per gli altri versi più animati e mossi. Matura così, nella lettura, l’attesa dei verbi, anche indefiniti, che giungono a innescare nuove prospettive, a redimere la stasi e l’accumulo, a spalancare un orizzonte più ampio per dare direzione ai detriti: le rovine i cocci il vasellame / gli scaloni le stanze le botteghe / emersi dalla piena alla pianura. È la stessa pianura che dà il titolo, maiuscolo e corsivo, alla seconda brevissima sezione, che fa prendere il respiro tra le due estreme: sono in tutto tre poesie, che si legano alle altre due poesie in corsivo del libro, nella sezione successiva. Cannizzo non ci ha detto tutto, ha posto una trama sepolta e oscura in questo suo libro-soundcheck, spaventoso e calibrato, sapiente e senza approdo.

(Pietro Cagni)

Enzo Cannizzo, Avanza un’ora di luce, prefazione di Miguel Ángel Cuevas, Viagrande (Catania), Algra, 2023, pp. 76, € 9,50.

Lineatempo #37

Dossier

Segmenti

Recensioni ed Eventi

  • La lama e la croce (a cura di Silvana Rapposelli)
  • Lingua mortal non dice (a cura di Teresa Colombo)

Mappe #14

La Zona estrema di Francesco Filia

«La poesia si compie nell’attesa alla frontiera» scriveva il filosofo e teologo Ladislaus Boros nel suo Mysterium mortis. Al limite, in una zona estrema di confine si trova anche la poesia di Francesco Filia che con Nella fine ci conduce in un territorio solcato da cieli incendiati ed esplosioni, da inverni minacciosi e paesaggi assiderati in cui «l’annuncio mite di un nuovo inizio / qualcosa ancora preme per nascere / da un antico silenzio». Come nelle sequenze cinematografiche di Stalker del russo Tarkovskij, si attraversa la “Zona” di questo libro lucido e tagliente con la sensazione di un pericolo imminente, in un estremo silenzio in cui il poeta registra con perizia chirurgica i minimi dettagli, i gesti essenziali: i vetri che vibrano     «in controluce», le «lettere sulle pareti delle aule» che «tacciono e sbiadiscono», il gesso che  «continua a stridere sull’ardesia», la «superficie scabra di un tronco tra le dune» e ancora  «Ogni gesto, / il rigare minimo di un polpastrello nella polvere». Consapevole che ogni verso, come dichiarato nella nota in appendice al libro «deve avere in sé il proprio inizio e la propria fine» la scrittura di Filia si carica di un’essenzialità visionaria che a tratti può forse ricordare un certo De Angelis. Ecco qui la poesia di Filia, la sua “biografia sommaria”: questo saper rimanere immersi nel grande enigma della vita senza facili ideologie o illusioni, tra la «lastra del cielo» che pare incombere su di noi e un «sibilo» che nonostante tutto «attraversa le nostre vite e riapre / una ferita antica e sconosciuta»   

(Massimiliano Mandorlo)

FRANCESCO FILIA, Nella fine (2019-2022), Pasturana (AL), 2023, pp. 60, € 15.

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