Categoria: In Evidenza

Tutte le novità interessanti di LineaTempo

In viaggio da Firenze a Ravenna

La figura di Dante vista con gli occhi di Giovanni Boccaccio

All’età di 84 anni, Pupi Avati ha deciso di mettersi alla prova con un compito “da far tremar le vene e i polsi”, (la citazione l’ha fatta lui stesso in una delle presentazioni del film). Affrontare la vita di Dante facendone un prodotto didascalico o scadere nell’enfatico sarebbe stato molto facile, ma il regista bolognese dalla lunga carriera si è saputo mantenere su un percorso lineare e sobrio che, pur con qualche cedimento ai luoghi comuni sul Medio Evo e qualche trascuratezza narrativa, riesce egregiamente a farci comprendere lo spirito del tempo in cui la storia si svolge.

Il regista utilizza come traccia un romanzo da lui stesso scritto, il recente L’alta fantasia. Il viaggio di Boccaccio alla scoperta di Dante (Solferino). Il racconto è una sorta di diario dello scrittore Giovanni Boccaccio (Sergio Castellitto), incaricato nel 1350 dai Capitani di Orsanmichele – la confraternita che radunava le corporazioni fiorentine – di raggiungere Ravenna e consegnare a suor Beatrice (Valeria D’Obici), figlia di Dante, la somma di dieci fiorini d’oro, a titolo di risarcimento per i torti subiti dal padre: la condanna, la confisca di tutti i beni, la minaccia del rogo se si fosse ripresentato a Firenze, l’esilio che lo vide ramingo per le signorie d’Italia.

Il compito che Boccaccio si assume, e il viaggio che ne consegue, anche se per un uomo nemmeno quarantenne, sono per lui quasi il compito della vita (e come ogni uomo coscienzioso del suo tempo, prima di avviarsi anche solo da Firenze a Ravenna, fa testamento).

Il profondo legame che Boccaccio sente nei confronti di Dante si riflette nelle aspettative per l’incontro con l’ultima testimone della vita del Poeta, figura venerata come un padre che non si è mai conosciuto di persona, ma che risulta sempre presente. Il viaggio, svolto in compagnia del fido Donato (Enrico Lo Verso), è un percorso che gli permette di imbattersi in chi diede riparo e accoglienza a Dante mentre era in fuga. Boccaccio sosta negli stessi paesi, nei castelli, nei conventi; ad ogni sosta il regista attraverso dei flashback ricostruisce la vita di Dante: la giovinezza (qui Dante è interpretato da Alessandro Sperduti), l’incontro con Beatrice (Carlotta Gamba) e il suo innamoramento, fino alla morte di lei. Poi l’amicizia con Guido Cavalcanti, l’accettazione di incarichi pubblici per poter mantenere la famiglia, l’impopolare decisione di bandire da Firenze anche l’amico Guido per scongiurare altre battaglie, scelta che gli attirò l’avversione di Papa Bonifacio VIII e dei governanti della città.

La scelta degli interpreti è quanto mai centrata: Castellitto incarna un Boccaccio conscio dell’importante incarico “civile”, ma al tempo stesso timoroso ed emozionatissimo ad ogni incontro che gli permetta di saperne un po’ di più su quell’uomo di cui egli stesso continua a ripetere “mi è padre”. Enrico Lo Verso è una spalla discreta ma precisa, come pure gli altri interpreti di tutti gli incontri (ed è bello che di Paolo Graziosi e Gianni Cavina questo resti l’ultimo ricordo al cinema, essendo scomparsi poco dopo le riprese). Qualche perplessità la suscita la scelta di attrici chiamate a impersonare donne anziane ma che mostrano evidentemente sul viso l’opera del chirurgo plastico, che genera un’impressione veramente stridente.

Avati ripropone nel film un’immagine del Medioevo già esplorata in altri suoi film come Magnificat I cavalieri che fecero l’impresa, rappresentando un mondo con interni bui e scarni, nel quale il regista alterna scene oniriche (come quelle che riguardano il rapporto di Beatrice con Dante) e invenzioni volutamente inquietanti, come la bambola crepata che fu di Beatrice e che Boccaccio compra per la figlia. L’impianto, a volte un po’ troppo televisivo (giustificato probabilmente dalla futura destinazione dell’opera) si riscatta però in un finale realmente poetico e anche visivamente commovente.

Beppe Musicco

www.sentieridelcinema.it

Dante di Pupi Avati: solo un uomo come tanti?

Io penso che non basti una accurata ricostruzione storica per considerare un film ben riuscito.

La scelta attenta dei luoghi, dall’interno di una pieve affrescata alle stradine tortuose di un borgo fino agli interni ricostruiti in modo verosimile grazie alle testimonianze pittoriche, permette allo spettatore di immergersi veramente nella quotidianità di Dante, per non parlare degli abiti, delle armature, dei finimenti dei cavalli, del cibo di cui si nutrono i personaggi. Tutto ciò è molto accurato e va apprezzato insieme alla bravura di alcuni attori, ma, come dicevo, non basta.

Qual è lo scopo del film? Farci conoscere qualcosa di Dante, suppongo, visto anche il titolo. E che cosa scopro di Dante grazie al film? In prima battuta direi che scopro il grande amore di Boccaccio per Dante, un amore che lo porta, nonostante le sue precarie condizioni di salute, ad accettare un impegnativo incarico da parte delle autorità cittadine: andare da Firenze a Ravenna per consegnare alla figlia di Dante, monaca in quella città, una consistente somma di denaro, a tardivo riconoscimento del merito del padre. Il viaggio è faticoso, ci si deve inerpicare con un carretto su e giù per l’Appennino lungo strade appena tracciate e confidare nella frugale ospitalità di qualche convento. Boccaccio gioisce nel recuperare le tracce del passaggio di Dante esule e versa lacrime di sincera commozione su un breve autografo conservato da un uomo che ancora si ricorda del fiorentino in fuga, come pure piange a dirotto nel colloquio finale rievocando il padre con la di lui figlia.

Ma che cosa scopro di Dante? Quello che Pupi Avati ha scelto di mostrare nel film, (e sicuramente non è poco!) è un uomo innamorato della poesia e di Beatrice (ma non è nulla di più di una cotta adolescenziale!), immerso in un’epoca violenta e fratricida, alle prese con i debiti per cui l’elezione a priore potrebbe portare un po’ di sollievo; un idealista che spera, con il viaggio dal papa, di riportare la pace a Firenze, poi un uomo ramingo e solo nelle asprezze dell’esilio. Come molti altri a quel tempo.

Che cosa nel film mi aiuta a capire perché Dante è Dante e meriti ancora la nostra attenzione a settecento anni dalla sua morte, al di là degli ossequi di rito? Quello che noto di più è una mancanza, c’è infatti un aspetto che viene completamente ignorato dal film, e che secondo me non si può proprio fare a meno di tralasciare se si vuole veramente rendergli giustizia, e cioè il fatto che Dante fosse indubitabilmente un uomo eccezionale. Non avrebbe potuto scrivere la Commedia se non fosse stato un grande poeta e, soprattutto, un uomo di fede. Ebbene, nulla nel film fa anche solo sospettare che lo fosse, tutt’al più troviamo un generico misticismo, visto che a lui morente viene messo in bocca un verso del 33° canto del Paradiso: «al fine di tutti i disii mi appropinquava» oppure il fatto che la figlia monaca, finalmente raggiunta da Boccaccio a Ravenna, chiude il film con la battuta: «Lui conosceva il vero nome delle stelle», una bella epigrafe, un pochino romantica.Non è certo moralismo chiedersi che cosa resta se a Dantetogliamo la sua grandezza, come poeta e come credente, e ci limitiamo a prendere atto di tutte le esperienze drammatiche che la sorte gli ha riservato. Ma il senso di tutte quelle esperienze ci sfugge.

Se ancora oggi parliamo di Dante non è certo perché era un uomo del suo tempo (e come avrebbe potuto non esserlo?) ma proprio per quel tratto di eccezionalità, di grazia, di cui però nel film non si sospetta neppure l’esistenza.

Non sono un regista, quindi non so dire come sia possibile rendere in immagini e con una sceneggiatura determinati aspetti della personalità di un personaggio, in particolare quelli più profondi e misteriosi; forse la questione è proprio qui, si può ‘dire’ l’eccezionalità di una persona con il linguaggio del cinema?

Pupi Avati ha fatto una scelta precisa, ricostruisce intorno a Dante ambienti e situazioni in modo filologicamente ineccepibile e lascia sullo sfondo la questione invitandoci a fidarci delle lacrime di un Boccaccio-Castellitto che inevitabilmente ci muove a commozione. A noi spettatori decidere se ci basta.

“Tu se’ lo mio maestro e ‘l mio autore”

Dante per Pupi Avati? “Quando l’espressione più pura del talento si tira fuori nel dolore!”

Pupi Avati con questo film ha ricostruito innanzitutto storicamente l’epoca del Due/Trecento in cui è vissuto l’Alighieri e lo fa in modo magistrale . Pochi frame e si viene catapultati nel “presente” di Dante (1265-1321) e Boccaccio. Già solo per questo, il film avrà un impatto positivo nelle scuole e tra gli studenti. Ma sì, perché questa, la ricostruzione storica, è cosa formidabile quando è fatta bene: davvero sublime “arte” è questa del fare cinema! Se non si tiene conto di questa evidenza si rischia nel giudizio su questo film di scivolare in astratte disquisizioni dantesche, e si finisce col dire soltanto quello che il film “non dice”, senza accorgersi invece di quello che il film dice e Avati qui ne dice di cose e belle pure e potenti! Poi è tutto vero quel che lo stesso regista sostiene nelle sue interviste, rilasciate ai vari “media”: si è tenuto lontano dalla Divina Commedia in quanto allegoria, perché ha voluto avvicinare Dante al nostro presente come uomo e come poeta e… c’è riuscito!! Era difficilissimo affrontare un film sul Nostro e lui l’ha saputo fare, percorrendo la sola strada percorribile per farlo cioè non “produrre” un film scontato e pacchiano: ha imboccato la strada di tutti quei bravi insegnanti ( cioè quelli che sanno suscitare nei ragazzi ammirazione passione e curiosità negli studi e per la cultura ) che per far incontrare i ragazzi con l’autore (e la sua opera) sono loro stessi per primi a fare l’incontro personale con l’ autore e la sua opera. Avati è un genio. Ad esempio, ha fatto “duettare” nella recitazione, con sobrietà per nulla scolastica quel capolavoro della Vita Nova, che è la poesia “Tanto gentile e tanto onesta pare”, tenendo sulla scena, visivamente alla distanza, Dante e Beatrice in un gioco di sorrisi e sguardi, che veniva esaltata ora dai versi ora dalla bravura dei due attori (Carlotta Gamba e Alessandro Sperduti) totalmente calati nei panni dei loro personaggi. Il film rispetta il genere propriamente biografico, ma in controluce vi si può leggere l’ispirazione- proprio nella narrazione della vita di Dante – che è alla base delle stesse tre cantiche della Commedia ( la dis/peranza ovvero la disperazione come luogo dell’Inferno; l’espiazione ovvero la speranza – certezza che è il purgatorio; e il compimento della speranza che è l’incontro con l’oggetto proprio del desiderio dell’uomo, che è Dio, ovvero il fine di tutti i “desiri”). Quante cose suggerisce questo film!! Non ultima quando si parla degli odii di cui vivevano i fiorentini, e non solo loro, al tempo delle lotta tra guelfi e ghibellini e che oggi prende mille forme sia nella politica, quando si diventa manichei e l’Altro diventa “il” nemico ( papa Francesco parlerebbe di cainismo!) o in tema di religione, quando ci si erge a “cristianisti” ovvero a inguaribili moralisti, per cui più importante dell’incontro vivo con una Presenza è discriminante la guerra senza quartiere alla modernità atea e immorale e alla depravazione di cui si tinge la secolarizzazione. In entrambi i casi-politica o religione– come nelle battaglie di Campaldino o di Montaperti o come nella “sacrilega e diabolica” guerra in Ucraina – in gioco c’è la folle alternativa : “o noi o loro!”. Dante ha creduto che si potesse andare “oltre e attraverso” l’assurdità di tale contrapposizione con il dare carne alla pax di Cristo, scommettendo tutto sulla bellezza e la poesia! Nessuna critica dunque al film?… certo che sì, di critiche ce ne sono ma non per metterlo sotto processo – sarebbe ingeneroso – per tutte quelle cose che Avati non dice. E non dice perché Egli ha voluto restituirci il Dante uomo, un Dante che si è consumato negli ultimi 20 anni di vita nel dolore e nell’amarezza, esiliato dalla sua patria, per motivi politici (per mano dei guelfi Neri e la complicità di Bonifacio VIII), un provvedimento che prevedeva pure la condanna a morte, ancorché profondamente ingiusto. Un Dante tirato giù dal piedistallo cui gli pseudo – dantisti lo avevano messo- altra forma di esilio, questa? – svestendolo della sua umanità, facendone un mito lontano dalla realtà e dal popolo di cui resta addirittura “padre per sempre” nella lingua! E comunque sollevare ciò che il film non dice non sarebbe onesto, ché la provocazione positiva è stare a quello che il film invece dice e vuol dire … a noi, e non divagare! Attori da Castellitto a Gamba a Sperduti tutti ben compresi nel loro ruolo e quindi tutti credibili, Sergio Castellitto su tutti … che in realtà è Pupi Avati sotto mentite spoglie: infatti la sceneggiatura è sua. Il film dura 94 minuti ma volano via e la colonna sonora del duo Gregoretti – De Rosa è in sintonia con le immagini e le loro “aure” vagheggiano in modo superbo il Medioevo.

LineaTempo #30

A distanza di due anni dall’introduzione della nuova Educazione civica nella scuola italiana LineaTempo nel numero 30 si è proposta di verificare la portata culturale ed educativa del nuovo insegnamento.
Col dossier Insegnare Educazione civica: una possibile svolta per la scuola italiana documentiamo come questa innovazione, se sviluppata con percorsi in forma esperienziale fondati sulla centralità della relazione educativa, può diventare “linfa vitale” per il rinnovamento della scuola.
Delineano questa prospettiva, che permette una critica efficace all’individualismo contemporaneo, i diversi contributi offerti, che riflettono da varie angolazioni sui nodi fondamentali di questo insegnamento.

Andrea Caspani – Scuola, cultura e vita: il ruolo strategico della nuova Educazione civica
Il senso di un dossier
Elena Cappai – L’insegnamento trasversale dell’Educazione civica: una sfida per la scuola italiana
Costruire percorsi trasversali centrati su “compiti di realtà”
Dario Eugenio Nicoli – Il farsi dell’umano
Un curriculum e un canone per l’Educazione civica
Rosario Mazzeo – Educazione civica e valutazione: una prospettiva globale
La valutazione come risorsa per il cambiamento
Francesco Lorusso – Leadership e processi innovativi
Il contributo dell’Educazione civica per innovare schemi organizzativi e didattici
Federica Ceriani – Percorsi trasversali di Educazione civica: una sperimentazione in atto
Esperienze interdisciplinari di Educazione civica promosse da Istoreto
Sante Maletta – Alle radici della relazionalità
L’aristotelismo sovversivo di Alasdair MacIntyre

Per i Percorsi culturali e didattici viene focalizzata una prospettiva di insegnamento di storia per le scuole medie del gruppo di docenti che propone il progetto Educare insegnando

Nei Segmenti appaiono: un articolo che costituisce un controcanto all’immaginario culturale dell’ideologia del Russkij Mir; un breve profilo di Armida Barelli, grande protagonista della storia italiana del Novecento finora poco conosciuta; la ricostruzione della storia di padre Popieluszko e della sua opera di resistenza nella Polonia comunista e una riflessione sulla Paternità e il desiderio, che mostra come amare le storture della vita.

Primo Piano è dedicato a Rolando Rivi e l’imprevedibilità del bene, con una serie di interventi connessi alla pubblicazione del libro 13 aprile 1945

In Recensioni ed eventi un’accurata presentazione di un libro che fa una storia culturale dell’Eucarestia e la recensione di un libro sulle riduzioni gesuitiche del Paraguay che mostra l’irriducibile contemporaneità dei gesuiti.

I profughi e noi. Un’esperienza di accoglienza familiare

Quando noi abbiamo conosciuto Kapi e Mamadou non c’era in Italia attorno a loro e a tutti quelli come loro quel moto universale di solidarietà che si è espresso nei confronti dei profughi di guerra ucraini. C’era un clima fortemente polarizzato, condizionato ideologicamente.

Eppure le guerre africane o quelle medio orientali non sono state (e non sono) meno terribili del conflitto in atto in Ucraina. I milioni di profughi di queste guerre si sono riversati nei paesi limitrofi, come sta accadendo ora in Europa con gli sfollati ucraini. E di fronte a queste tragedie non è scattato un moto di solidarietà collettiva, ma solo paura e recriminazione per l’arrivo di quei pochi in Europa.

Lo stesso slancio umanitario verso il popolo afgano dopo l’evacuazione dell’esercito americano si era già del tutto spento quando le truppe russe hanno iniziato ad invadere l’Ucraina e gli stessi afgani avevano già da tempo iniziato a percorrere la rotta balcanica.

Queste considerazioni ci hanno aiutato a capire che ha senso e può essere utile raccontare oggi la nostra storia di accoglienza, e quindi di aiuto e di accompagnamento. Anche se particolare e diversa da quelle che prenderanno forma con donne e i bambini ucraini, in essa è documentato come nella nostra vita personale e famigliare si sia introdotto un cambiamento, inaspettato, ma sostanziale e durevole, che ci ha aperto nuove prospettive.  

L’incontro con Kapi e Mamadou ha rappresentato per noi un nuovo inizio e quando qualcosa di nuovo accade c’è un prima e un dopo. A fronte di una accoglienza più o meno lunga, ma sempre temporanea, almeno nelle modalità iniziali in cui si manifesta, c’è un “per sempre”. Nulla si perde.

La storia personale di Kapi e Mamadou e le vicende che hanno contrassegnato tragicamente la loro migrazione sono simili a quelle di tanti altri, come le problematiche e le difficoltà che hanno incontrato in Italia. Ma Kapi e Mamadou non sono “migranti”. Sono Kapi e Mamadou: unici al mondo.

Il nostro impegno non è iniziato per una motivazione sociale o civile, anche se la nostra azione ha indubbiamente una ricaduta in questo senso. Noi abbiamo deciso di accompagnare due persone conosciute ad un certo punto del loro percorso, ascoltando e cercando di venire incontro alle loro necessità, anche particolari e concrete, grazie all’aiuto della rete delle nostre amicizie. Man mano che i problemi emergevano e si rivelava la complessità della loro situazione, è stato indispensabile prendere contatto con gli operatori e le strutture preposte all’accoglienza.

Né all’inizio né in seguito abbiamo agito solo seguendo un impulso emotivo, ma per un desiderio consapevole di condivisione della loro vita e per amore al loro “destino”. Abbiamo agito per un senso di responsabilità.

È scaturita così una storia che ha coinvolto tanti altri, che, grazie al nostro gesto di accoglienza, sono stati aiutati ad incontrare a loro volta, in modo diretto e personale, una realtà vista fino a quel momento da lontano e da cui forse anche si tenevano lontano.

Per chi desiderasse conoscere la nostra storia è disponibile la dispensa “L’inaspettata convenienza della famiglia. L’esperienza di accoglienza familiare di Kapi e Mamadou” edita dalla Associazione Famiglie per l’Accoglienza sede regionale Emilia Romagna, che è scaricabile QUI.

Antonia e Gianfranco

A proposito di Mauro Giuseppe Lepori: Si vive solo per morire?

Per accostarsi all’opera dell’attuale abate generale dei cistercensi, padre Mauro Giuseppe Lepori, una via privilegiata può essere l’agile volume che raccoglie le lezioni da lui presentate nel corso dei Meeting di Rimini dal 2003 allo scorso 2015, insieme a due conferenze del 2008 e del 2013. La pubblicazione aveva visto la luce per i tipi di Cantagalli nel 2016 con un titolo a prima vista destabilizzante, o forse in realtà, potremmo meglio dire, sanamente provocatorio (Si vive solo per morire?). Lo scopo era anche quello di inaugurare una nuova collana di “Classici”, cioè di testi concepiti come riferimenti sostanziosi per confrontarsi con le domande fondamentali dell’esistenza: una sfida sempre aperta, dove contano non solo la radicalità degli interrogativi, ma anche la ricchezza dei tentativi di risposta che i grandi autori di un passato lontano così come i maestri del nostro presente possono offrire in termini non tanto di proposta intellettuale, quanto piuttosto, in primo luogo, di testimonianza vissuta (al libro di Lepori hanno fatto seguito Péguy, Paolo VI, Clemente Rebora). “A caccia di Dio” era l’insegna sotto cui si disponeva l’iniziativa editoriale. C’è però da dire che la formula non intendeva rinviare a una esplorazione confinata nel territorio di una riserva per cultori superaddestrati del “religioso”. Dio qui era inteso come il vertice di ogni anelito dell’uomo onesto con sé stesso, che non vuole abdicare alla grandezza della sua statura e insegue quell’Oltre che sta al di là di ogni manipolazione addomesticata delle sue istanze di bene, di verità e di bellezza.
Lepori, nel volume che vogliamo commentare, si serve delle metafore letterarie, come è abitualmente nel suo stile, per comunicare la suggestione di ciò che più gli preme. In questo caso prende le mosse da Victor Hugo. Nei Miserabili, il fiume di perdono che si riversa sull’ex forzato Jean Valjean dopo l’incontro travolgente con il vescovo che lo riscatta dall’accusa di un furto spregevole sembra subito bloccato dal nuovo cedimento all’impulso accaparratore. Ne fanno le spese i pochi soldi raggranellati da un bambino mendicante, vergognosamente depredato da chi si stava incamminando con la borsa piena di argenteria verso il suo straordinario approdo di convertito al primato della generosità eroica. Il gesto rapace della rapina che vuole strappare un guadagno per il proprio esclusivo possesso, riflettendo nella lunga corsa del tempo la voracità dei progenitori tentati dal Serpente nel Paradiso delle delizie, è lo stesso di don Rodrigo che, alla fine dei Promessi sposi, stringe le mani ad artiglio sul cuore devastato dal respiro affannoso dell’agonia, in contrapposizione a quelle di padre Cristoforo che restano aperte fino all’ultimo per donare, per benedire e spezzare il pane eucaristico.

La dialettica tra la bramosia della conquista da afferrare con le dita adunche e la “carità oblativa” del dono restituito, a piene mani, da chi a sua volta è stato l’oggetto di un amore che lo fa rinascere a nuova vita percorre molte delle meditazioni di p. Lepori. Il gioco di queste ambivalenze rimanda a uno sguardo spregiudicatamente realistico gettato sul mistero di tutto ciò che esiste. Al principio sorgivo dell’essere, dunque anche di quell’essere minuscolo e pieno di bisogno che è l’io di ciascuno di noi, non si può immaginare altro che il dinamismo della pura gratuità che crea, facendo passare dal non essere all’essere limitato e dipendente della natura creata. Noi, il mondo e la storia siamo l’espansione mai esaurita di questo ardore che trabocca continuamente fuori di sé, generando l’altro da stringere in un abbraccio di comunione. In cima alla scala delle creature, nel codice genetico dell’identità umana resta impressa l’orma indelebile di una “somiglianza” con il divino che si intreccia con il dono privilegiato della libertà: perché ciò che è plurale non si può fondere nell’unità se non volendolo liberamente. Solo che la libertà l’uomo l’ha esercitata degradandola a volontà di autonomia gelosa, nella lacerazione della disobbedienza che ha rotto il legame originario con il Principio. È andata in frantumi l’alleanza fiduciosa con il Tutto divorata dal tarlo del dubbio nei confronti della verità trasparente della realtà così come si pone.
Ma la gratuità totale, infinita, libera dalle catene dei doveri di riconoscenza e senza alcun obbligo di ritorno, la carità sfrenata del Dio-Trinità che fa sorgere le cose dal niente e accompagna la vita dell’uomo in ogni sussulto del suo respiro non poteva rinunciare a colmare lo spazio di amore lasciato aperto per ogni uomo vivente: anche nella tragedia scandalosa del rifiuto che chiude il dialogo e si piega ad adorare la divinità irrisoria di idoli incapaci di mantenersi all’altezza delle loro promesse. Che la natura profonda del Divino sia la misericordia si vede nella rivelazione che la manifesta pienamente, miracolosamente, attraverso l’incarnazione del Figlio: Lui che accetta di esporsi alla cattiveria rapinatrice dell’uomo fino alla sua espropriazione totale, fino alla passione e alla morte di croce.
La croce di Cristo è l’altro grande centro della riflessione dell’abate cistercense sul dramma umano in cui siamo coinvolti. Cristo immolato sul patibolo del Golgota è il massimo segno dell’amore che si dona all’uomo, risanandolo dal suo male ultimo: il divorzio dalla radice di cui è fatto. Le piaghe, il sangue che scorre, in primo luogo il cuore trafitto dalla lancia del soldato romano sono l’eccesso clamoroso in cui si riassume (così hanno sperimentato i mistici di ogni epoca) lo slancio di una carità che non poteva lasciarsi contraddire dallo sfregio della contestazione aggressiva dell’uomo.

Il costato ferito rimane aperto per sempre, e dal varco creato dalla punta dell’arma dopo che si decise di risparmiare l’integrità delle ossa del corpo di Cristo, senza spezzarle, fuoriesce quel fiume di sangue misto ad acqua in cui la tradizione cristiana, rilanciata in modo potente nel cuore delle tragedie del Novecento, ha visto la sorgente zampillante della Divina Misericordia, che lava e rigenera con la forza della vita nuova del Risorto all’opera nel mondo.
Aderire alla presenza viva di Cristo vuol dire accogliere l’invito persuasivo del suo “Seguimi!”. Significa prenderlo sul serio come il paradigma in cui ci immedesima la risposta del nostro amore resuscitato, sulla strada del ritorno alla comunione con il Padre. Stare nella compagnia di Gesù porta così inevitabilmente a immettersi nel solco della sua stessa missione: far risplendere la luce e la forza attrattiva della gratuità di Dio nella testimonianza di uno sguardo nuovo, pieno di amore, di positività e di capacità di dono, sulla totalità della realtà, in ogni frammento delle fluttuanti circostanze della vita.
 
(Una prima versione di questo commento era apparsa in “Il Sussidiario.net”, 26 agosto 2016: http://www.ilsussidiario.net/News/Cultura/2016/8/26/LETTURE-Mauro-Giuseppe-Lepori-si-vive-solo-per-morire-/720485/)

Pagina 5 di 5

Powered by WordPress & Tema di Anders Norén