«Il millennio / lasciato per un’epoca diversa». Su L’amore e tutto il resto di Andrea Temporelli
Sul filo vertiginoso del pensiero, tra slittamenti e infiniti nascondimenti si muove la poesia di Andrea Temporelli – tra i fondatori della storica rivista letteraria militante «Atelier» – inseguendo una «chimica grammaticale» fatta di nomi personali, «segni» e «solchi» incisi in un vissuto carico di smarrimenti, preghiere, passioni, battaglie e scontri frontali con la storia. L’amore e tutto il resto, «costellazione provvisoria» di tutta la produzione poetica di Temporelli – alias Marco Merlin – ci conduce in una vasta e appassionata esplorazione di sé e del mondo, lì dove è ancora forse possibile «fare paradiso / di questa terra marcia». Quando l’energia vulcanica dell’intelletto sa sciogliersi in luziana naturalezza anche l’amore inseguito a lungo in queste pagine può farsi finalmente limpido: «Tu sei gli anni più belli della vita, / gioventù che non torna, / e l’amore, l’amore senza fiato. / Tu sei slancio e ferita / Presto sarai la piega delle labbra, / il solco accanto agli occhi e l’alta fronte. / Il tuo regno è di sale che corrode. / Sei la perdita in cui avanzo, il millennio / lasciato per un’epoca diversa. / Sei il proiettile puntato alle spalle / che non esplode».
(Massimiliano Mandorlo)
Andrea Temporelli, L’amore e tutto il resto, Novara, Interlinea, 2023, pp. 127, € 14.
Sperare con gli occhi di Borges: Quando i diavoli si svegliano dèi di Jòn Kalman Stefànsson
Un piccolo appartamento di Reykjavìk può essere il centro del mondo, ovvero di un mondo contemporaneo che tanto assomiglia «all’anticamera dell’inferno» (p. 63) dove «non è più possibile / distinguere Dio da Satana» (p. 67)? Per Jòn Kalman Stefànsson, poeta e scrittore tra i più apprezzati del panorama islandese, stando alle poesie di Quando i diavoli si svegliano dèi, non ci sono dubbi. La tosse del vicino, la vista di un crinale di montagna, l’inquinamento globale, un naufragio sulle coste della Sicilia entrano nello spazio familiare del poeta, intento ad ascoltare un disco di Tom Waits con un buon bicchiere di whisky, e chiedono di essere accolti come una domanda ineludibile, urticante. Sembrerebbe che non rechino nessuna nuova sotto il sole islandese che, dalle nostre latitudini meridionali, immaginiamo splendente anche a mezzanotte. E invece, ascoltandoli con il perfetto dosaggio di amore e ironico disincanto di Stefànsson, ci ricordano che siamo esseri aggrappati alla speranza, e che «abbiamo davvero bisogno di fare affidamento su tutto / ciò che si innalza, che fende / il buio, che accoglie più luce, / e ci offre una prospettiva // perché la prospettiva / amplia la visione del mondo» (p. 29). La stessa visione del vecchio Borges, «morto nel buio che lo attendeva / forse con occhi nuovi» (p. 43), forse con la saggezza di un uomo che ha visto le ragioni della vita più forti di quelle della disperazione.
(Pietro Russo)
Jòn Kalman Stefànsson, Quando i diavoli si svegliano dèi, trad. it. Silvia Cosimini, Iperborea, Milano, 2023, pp. 160, € 17.
Un vento continuo, un’aria impetuosa e imprevedibile attraversa le pagine del nuovo romanzo di Alessandro Rivali. È un vento di rivoluzione e di cambiamento, di promesse e speranze che scende ad accompagnare la vicenda della famiglia Moncalvi – specchio di quella dei Rivali e della loro avventurosa epopea – del piccolo Gutin scampato alla furia incendiaria della guerra di civile di Barcellona nel 1936 per imbarcarsi, profugo strappato ai giochi dell’infanzia, su un piroscafo diretto a Genova. Il mio nome nel vento è il romanzo a lungo inseguito da Rivali, i cui luminosi frammenti erano già visibili in tutta la precedente opera poetica dell’autore: ora esplorazione autobiografica di una dimensione familiare e feriale che allo stesso tempo si fa epica. Ascoltare il vento è attraversare il cristallo terso dei ricordi di un padre e di un figlio, perdersi nei vicoli inafferrabili della Superba o nella bellezza fiammeggiante di Barcellona, sprofondare negli abissi della Seconda guerra mondiale con la fede invincibile in un amore a lungo sofferto, perso e ritrovato. Cercare di scrivere Paradiso, come Pound, equivale per Rivali ad un’estrema e salutare forma di abbandono: «un uomo che aveva perso tutto e si spegneva senza speranza, e che un attimo prima di morire rubava il paradiso per aver incrociato lo sguardo del Cristo. Ecco, se potessi, vorrei terminare così i miei giorni. Sentire il mio nome pronunciato come una carezza. E poi potermi finalmente abbandonare nella luce e nel vento».
(Massimiliano Mandorlo)
Alessandro Rivali, Il mio nome nel vento. Storia della famiglia Moncalvi, Mondadori, Milano, 2023, pp. 259, € 18,50.
Al confine tra la storia e la metafisica, l’esperienza della natura è la soglia di un sentire religioso in cui l’incontro Io-Altro si manifesta con maggiore intensità. Ce lo ricorda – a noi tiepidi abitanti di città globali – Chandra Candiani con il suo Pane del bosco, nutrimento di una domanda insaziabile che, invece di una risposta, porta in dote la disposizione all’ascolto, «Il punto in cui si smette di cercare / e ci si dispone a essere trovati» (p. 130). Non per questo, però, il bosco è un luogo idilliaco: il conflitto (che è ben diverso dalla guerra umana) attraversa le stagioni naturali incidendosi sulla corteccia degli alberi e nelle orme degli animali, quindi dialogando con le inquietudini di un’umanità che ha smarrito il proprio posto nel mondo. «Vado al bosco per perdonare le parole» (p. 10), scrive Candiani, suggerendo la strada di un apprendistato al linguaggio che intende rinnovare i voti (traditi) di un antico patto. E infatti altrove si legge: «Ti hanno posato una parola in mano / non renderla rispettabile, spargila / non lasciarla bruciante in gola» (p. 49). Il rispetto della natura – genitivo soggettivo – non è la rispettabilità sociale perché niente è naturalmente dovuto, o ereditato una volta per sempre; il bosco non ci si pone mai davanti come il luogo dei fatti, piuttosto come lo spazio di un fare molto prossimo al poiein delle narrazioni umane.
(Pietro Russo)
Chandra Candiani,Pane del bosco (2020-2023), Einaudi, Torino, 2023, pp. 152, € 12,50.
Un’ampia e inedita ricognizione dei testi della tradizione letteraria italiana in forma di preghiera, argomento finora scarsamente indagato vista la «forte tendenza ideologizzante, storicamente motivata, della critica letteraria italiana» (pp. 17-18). Erminia Ardissino ricostruisce la forma della «poesia-preghiera» in un lungo e rigoroso percorso che dal Cantico delle creature conduce alla religiosità visionaria della scrittura della Merini. Si va dalle origini della nostra letteratura (oltre a Francesco lo sviluppo del genere della lauda e il laudario iacoponico, la preghiera come struttura fondante del poema dantesco, i salmi penitenziali di Petrarca e le loro possibili ascendenze francescane) attraverso la poesia rinascimentale, le riscritture dei salmi e del Pater noster, la poesia spirituale femminile nell’Italia della prima età moderna. Il “grande codice” biblico agisce in profondità sulle Rime sacre di Tasso così come sull’inquieta poesia barocca, sugli Inni sacri di Manzoni o sulla poesia satirica e dissacratoria di Porta e di Belli fino alla distorsione dei modelli sacri (Carducci, D’Annunzio) che avviano la poesia-preghiera verso soluzioni novecentesche. Nell’età della «morte di Dio» se l’opera di Ungaretti è tutta un «cammino di preghiera» alla ricerca della terra promessa, le preghiere desacralizzate di Caproni sono una domanda lanciata nel baratro dell’esistenza, la vita in versi di Giudici rivela un’«assoluta osmosi in veste laica tra la parola poetica e il Verbo».
(Massimiliano Mandorlo)
Erminia Ardissino, Poesia in forma di preghiera. Svelamenti dell’essere da Francesco d’Assisi ad Alda Merini, Roma, Carocci, 2023, pp. 486, € 49.
Urgono sentieri di pace in questo mondo dilaniato dalla violenza e dalle guerre (in primis per l’aggressione russa all’Ucraina, ma senza dimenticare gli altri drammatici conflitti del presente).
Lineatempo 34 ha voluto raccogliere in un dossier dal titolo Sentieri di pace. Esplorare sentieri di pace nella storia: una lezione per l’attualità, una serie di percorsied esperienze che hanno condotto all’individuazione di nuove forme di “lotta per la pace”: dall’obiezione di coscienza, alla teoria e alla pratica della nonviolenza, fino alle più recenti modalità di riconciliazione e di perdono dopo drammatici conflitti etnici, sociali e nazionali. La prospettiva storica ha guidato la scelta dei percorsi presentati perché la storia è una risorsa per vivere in profondità il presente: un rilievo particolare assumono oggi gli approfondimenti sulla concezione della pace proposta e praticata da papa Francesco.
“Aver cura” dell’altro è una prospettiva esistenziale, che va oltre la terapia e oltre l’insegnamento in senso stretto.
La riflessione-provocazione è di un’insegnante delle scuole primarie, Patrizia Sciocco, a partire dalla suggestione offerta da un libro del noto psichiatra Cesare Maria Cornaggia.
«La scienza ci può rendere edotti su ogni sorta di dettagli interessanti circa la natura umana, ma non può risolvere il problema riguardante la natura e l’essenza della condizione umana» (Martin Heidegger).
Ho letto il libro dello psichiatra Cesare Maria Cornaggia dal titolo Dalla parte del desiderio. Da una paternità un metodo nella cura (Inschibboleth, Roma, 2022) e, come chiedo ai miei alunni a scuola dopo la lettura di libri, cioè se consigliarli ai compagni di classe e perché, ora mi metto io in gioco, come ho imparato anche dalla lettura di questo “manuale di vita” in cui il terapeuta non è colui che ha la ricetta, ma è colui che si mette in gioco con il paziente, innanzitutto stimandolo.
Sì, è proprio così: io insegnante, lui psichiatra, abbiamo una formazione universitaria, siamo edotti dalla scienza (cfr. Heidegger), ma questo non basta per prendersi cura di un malato o di un bambino. Ecco cosa fa la diversità: la relazione, uno sguardo sull’altro che lo accoglie e l’accetta così com’è, tant’è che Cornaggia definisce la terapia come «un rapporto che cambia».
Lui lavora nella relazione uno a uno, io sono ogni giorno in classe con i miei bambini e faccio fatica a chiamarli “alunni”, perché troppo impersonale.
In entrambe le situazioni avvengono “miracoli” che ti chiedono tante energie, ma ti fanno tornare a casa con una gioia nel cuore imparagonabile a qualsiasi altra. E questo non solo perché l’altro impara o guarisce, ma perché un Altro te l’ha messo sul tuo cammino – e non è un caso – affinché tu possa dargli un po’ di quella felicità che, anche se con i tuoi limiti, sbagli e peccati, puoi tentativamente trasmettere nella tua relazione, che è “sacra”. E il dare è sempre abbinato a un ricevere, a una scoperta di sé, come spesso Cornaggia ripete in questo suo testo.
Personalmente ho incontrato maestre che hanno “infuso” panico in certi bambini, i cosiddetti più fragili, ma che in realtà sono i più sensibili, i più svegli nella lettura dell’umanità dell’altro. Non mi sono mai arresa di fronte a tali atteggiamenti, come Cornaggia non ha mai “mollato la presa” verso i suoi pazienti.
Caro dottor Cornaggia, siamo insieme nello stesso cammino, sia come persone che come “terapeuti dell’umano”, anche se in ambiti diversi, ma come ben sappiamo la persona è una.
Mai vorrei che un mio bambino arrivasse da lei con qualche mancanza da me causata!
Ecco allora perché vale la pena non solo leggere il suo libro, ma riprenderlo spesso, per “lavorare” innanzitutto su me stessa e di riflesso su quei “piccoli grandi tesori” che Lui mi affida.
L’onnipotenza della tecnica, che ha progressivamente permeato tutti gli ambiti dell’esperienza umana, ha via via smarrito l’uomo nel dominio degli oggetti, aprendo una sfida antropologica che appare globale e che Lineatempo nel numero 33, dal titolo La sfida antropologica nella civiltà della tecnica, ha voluto raccogliere, chiamando a riflettere filosofi e personalità di spicco del mondo della cultura religiosa e laica, che da anni si interrogano sulle potenzialità e sui limiti del progresso tecnico e scientifico.
Per i Percorsi culturali e didattici vengono presentati una serie di contributi su Ripensamenti e prospettive sulla modernità in De Lubac, Guardini e Mounier.
Presentazione a più voci del libro di Giorgio Cavalli, Alla maniera dei briganti. La Grande Guerra del capitano Ettore Cavalli, Gaspari, Udine 2023
(3° premiato nella sezione “Narrativa edita” del Premio «Gen. Div. Amedeo De Cia»)
Centro PIME di Milano, Sala Girardi, 4 aprile 2023
Andrea Caspani, direttore di «LineaTempo» Giorgio Cavalli, autore e redattore di «LineaTempo» Claudio Lobbia, attore Federica Garieri, violinista Moderatore Enzo Riboni, giornalista del «Corriere della Sera» e scrittore.
Dopo un inquadramento storico di Andrea Caspani sul rapporto tra memorie personali e grande storia, il video presenta alcune letture teatrali di pagine tratte dal libro Alla maniera dei briganti. Voce narrante di Claudio Lobbia in dialogo con il violino di Federica Garieri. Le letture sono accompagnate da un ricco dialogo del giornalista-scrittore Enzo Riboni con Andrea Caspani e con Giorgio Cavalli, autore del libro.
La recensione di Mario Lo Pinto all’ultima fatica di Daniele Mencarelli ci invita ad addentrarci nella scrittura tanto densa quanto limpida di uno degli scrittori più originali di questo nostro tempo di sofferenza e solitudine, nel quale, per parafrasare un altro suo libro, tutto chiede salvezza. Ma nel caso di questo romanzo, perfino la parola salvezza sembra non poter uscire dalla gola del protagonista, almeno fino a che …Ma è possibile riavere noi dagli altri?
Nel suo ultimo romanzo Fame di aria (Mondadori, 2023) Daniele Mencarelli continua ad approfondire il tema del dolore e del suo significato.
Lo fa con un testo simile a quello di un’opera teatrale, quasi una sceneggiatura, e non è difficile immaginare che prima o poi ne venga tratto un film. Il romanzo descrive le vicende di un uomo bloccato da un guasto alla macchina in un piccolo centro insieme al figlio disabile che lui chiama beffardamente lo Scrondo; narra degli incontri di un uomo rabbioso e infelice, in fuga dagli affetti e pronto a mentire per nascondere la propria condizione e le proprie ristrettezze economiche, fino ad un epilogo inaspettato ed intenso.
Le condizioni a contorno sono quelle di un paese della provincia italiana più profonda, destinato a sparire quanto prima; l’ambiente e le cose sono le antiche suppellettili, i vecchi bar, le pensioni chiuse da tempo e riaperte per caso; simili ricordi sono vividi per chi ha già qualche anno ma son forse destinati a non essere pienamente compresi dai più giovani. Perché questo è il motivo che rende quasi familiari i racconti di Daniele, qualunque cosa racconti, il fatto di poterlo seguire riuscendo a vedere noi stessi negli spazi di un’altra Italia che perdura nella memoria.
Si può viaggiare nel tempo (atto I, scena III) è la sensazione entrando nel vecchio bar per il protagonista che ha già ripercorso le vicende del proprio doloroso accompagnare Jacopo, il figlio diciottenne autistico molto grave. Ogni cosa, fotografia ingiallita, quadri e poster, così come il mobilio, i ninnoli sopra il camino, e ancora più sopra la testa di cinghiale in bella mostra, tutto in quella sala ristorante sa di un passato andato via per sempre (I, VI). Solo il dolore non passa e non muta nel tempo.
Dentro a quelle circostanze abitano le persone che vengono in contatto con Pietro, il protagonista, e il suo fardello di dolore. E le persone chiedono di Jacopo, incuriosite o per compassione: «Perché sta così?» Ecco il momento. E il come e il cosa e il perché… «Non parla, da solo non fa nulla, si piscia e caca addosso.» La scena si svolge per arrivare a un compimento. Pietro, da grande attore, la ripete ogni volta sperando nel successo, e per lui il successo è uno solo. Il silenzio. Togliere al mondo la voglia di parlare, continuare a chiedere (I, III).
Il protagonista vive il suo dolore cercando di dominarlo – in fondo di accettarlo – da solo, senza riuscirci. Ha chiesto il miracolo: Il miracolo non è mai arrivato. Come unica risposta, da est è spuntato l’odio. Ha ricoperto tutto, i sani e i malati, la vita intera. Per anni è stato così. Poi pure l’odio è tramontato. Resta la rabbia, quando esplode (I, VIII). Odio e rabbia per il figlio, per sé stesso, per tutto.
Pietro chiede agli altri quel rispetto che, per non averlo sempre avuto, crede sia il motivo della disgrazia di Jacopo. Glielo diceva sua madre, prima di morire, che il male altrui va rispettato. Ed ecco la condanna (II, I). Anche altri personaggi mendicano rispetto, come Agata, la barista, nei confronti degli avventori e del marito defunto. «Quando era vivo Arturo qui dentro non volava una mosca, c’era educazione, poi lui è morto e ora certi omuncoli pensano di fare come fossero a casa loro. Io sono una donna, non mi rispettano» … «La verità, però, è un’altra. Questi quattro scellerati non mi rispettano perché il primo a non farlo era Arturo» (II, VI).
Il rispetto sembra l’unico atteggiamento adeguato di fronte al male e al dolore, alla sua ineluttabilità e alla sua incomprensibilità e in fondo nel romanzo il rispetto prima o poi ognuno è costretto a darlo.
Rispetto: guardare gli altri sapendo di essere guardati a nostra volta; ma tra i personaggi non c’è apparentemente nessuno che ricorda chi è colui che ci guarda. Il rispetto si ferma alle soglie del dolore, non può fare altro, non può reggere di fronte alla desolazione. Altre malattie sono battaglie. Questa, questa è più una specie di maledizione. L’unica cosa che mi viene in mente quando lo guardo è: perché a me? Cosa ho fatto di male? (III, III).
Gaia, una presenza amica, riesce a spostare Pietro per un attimo dalle sue angosce. Pietro resta a fissarla mentre si allontana, intanto prova a dare un nome a quello stato d’animo che gli è esploso dentro improvvisamente. Eccolo il nome. Gelosia. Dopo tanto tempo, è geloso di qualcosa. Qualcuno (II, VI). Per un attimo S’era dimenticato del figlio. Una sorta di miracolo (III, V).
Questo timido spunto è l’inizio di una contrastata presa di coscienza che promette un nuovo inizio, accettando la compagnia degli altri sul nostro cammino. Nella sala ristorante ritrova Agata accanto al loro tavolo. Ha iniziato a sparecchiare. Si volta verso di lui, ha gli occhi invasi di pianto. «Guardi.» Con una mano, con il palmo aperto, leggera, sta accarezzando Jacopo.… Pietro è colpito, finge di non esserlo, non vuole dare peso alla cosa. «Quanto è bello.» Agata non smette di piangere (III, VI).
Ma è una lotta ben dura il dover ammettere che “occorre riavere noi dagli altri” come diceva Cesare Pavese. No. Questo no. Pietro con la pietà ha chiuso. Jacopo, lo Scrondo, non è bello, né buono né bravo. Vorrebbe lei, la pietà, tornargli in gola come un fiotto d’acido dallo stomaco. Ma lui glielo impedisce (III, VI).
Fino all’epilogo dura questa lotta per risolversi in circostanze che è meglio lasciare alla lettura, ben consci, come l’Autore, che queste cose non succedono solo nei romanzi.
E come Daniele scrive nei ringraziamenti, occorre volgere lo sguardo anche A chi tende la mano, senza mai ricevere aiuto, o carezza. Ai dimenticati che resistono. A chi è andato giù.