La recensione di Mario Lo Pinto all’ultima fatica di Daniele Mencarelli ci invita ad addentrarci nella scrittura tanto densa quanto limpida di uno degli scrittori più originali di questo nostro tempo di sofferenza e solitudine, nel quale, per parafrasare un altro suo libro, tutto chiede salvezza. Ma nel caso di questo romanzo, perfino la parola salvezza sembra non poter uscire dalla gola del protagonista, almeno fino a che …Ma è possibile riavere noi dagli altri?
Nel suo ultimo romanzo Fame di aria (Mondadori, 2023) Daniele Mencarelli continua ad approfondire il tema del dolore e del suo significato.
Lo fa con un testo simile a quello di un’opera teatrale, quasi una sceneggiatura, e non è difficile immaginare che prima o poi ne venga tratto un film. Il romanzo descrive le vicende di un uomo bloccato da un guasto alla macchina in un piccolo centro insieme al figlio disabile che lui chiama beffardamente lo Scrondo; narra degli incontri di un uomo rabbioso e infelice, in fuga dagli affetti e pronto a mentire per nascondere la propria condizione e le proprie ristrettezze economiche, fino ad un epilogo inaspettato ed intenso.
Le condizioni a contorno sono quelle di un paese della provincia italiana più profonda, destinato a sparire quanto prima; l’ambiente e le cose sono le antiche suppellettili, i vecchi bar, le pensioni chiuse da tempo e riaperte per caso; simili ricordi sono vividi per chi ha già qualche anno ma son forse destinati a non essere pienamente compresi dai più giovani. Perché questo è il motivo che rende quasi familiari i racconti di Daniele, qualunque cosa racconti, il fatto di poterlo seguire riuscendo a vedere noi stessi negli spazi di un’altra Italia che perdura nella memoria.
Si può viaggiare nel tempo (atto I, scena III) è la sensazione entrando nel vecchio bar per il protagonista che ha già ripercorso le vicende del proprio doloroso accompagnare Jacopo, il figlio diciottenne autistico molto grave. Ogni cosa, fotografia ingiallita, quadri e poster, così come il mobilio, i ninnoli sopra il camino, e ancora più sopra la testa di cinghiale in bella mostra, tutto in quella sala ristorante sa di un passato andato via per sempre (I, VI). Solo il dolore non passa e non muta nel tempo.
Dentro a quelle circostanze abitano le persone che vengono in contatto con Pietro, il protagonista, e il suo fardello di dolore. E le persone chiedono di Jacopo, incuriosite o per compassione: «Perché sta così?» Ecco il momento. E il come e il cosa e il perché… «Non parla, da solo non fa nulla, si piscia e caca addosso.» La scena si svolge per arrivare a un compimento. Pietro, da grande attore, la ripete ogni volta sperando nel successo, e per lui il successo è uno solo. Il silenzio. Togliere al mondo la voglia di parlare, continuare a chiedere (I, III).
Il protagonista vive il suo dolore cercando di dominarlo – in fondo di accettarlo – da solo, senza riuscirci. Ha chiesto il miracolo: Il miracolo non è mai arrivato. Come unica risposta, da est è spuntato l’odio. Ha ricoperto tutto, i sani e i malati, la vita intera. Per anni è stato così. Poi pure l’odio è tramontato. Resta la rabbia, quando esplode (I, VIII). Odio e rabbia per il figlio, per sé stesso, per tutto.
Pietro chiede agli altri quel rispetto che, per non averlo sempre avuto, crede sia il motivo della disgrazia di Jacopo. Glielo diceva sua madre, prima di morire, che il male altrui va rispettato. Ed ecco la condanna (II, I). Anche altri personaggi mendicano rispetto, come Agata, la barista, nei confronti degli avventori e del marito defunto. «Quando era vivo Arturo qui dentro non volava una mosca, c’era educazione, poi lui è morto e ora certi omuncoli pensano di fare come fossero a casa loro. Io sono una donna, non mi rispettano» … «La verità, però, è un’altra. Questi quattro scellerati non mi rispettano perché il primo a non farlo era Arturo» (II, VI).
Il rispetto sembra l’unico atteggiamento adeguato di fronte al male e al dolore, alla sua ineluttabilità e alla sua incomprensibilità e in fondo nel romanzo il rispetto prima o poi ognuno è costretto a darlo.
Rispetto: guardare gli altri sapendo di essere guardati a nostra volta; ma tra i personaggi non c’è apparentemente nessuno che ricorda chi è colui che ci guarda. Il rispetto si ferma alle soglie del dolore, non può fare altro, non può reggere di fronte alla desolazione. Altre malattie sono battaglie. Questa, questa è più una specie di maledizione. L’unica cosa che mi viene in mente quando lo guardo è: perché a me? Cosa ho fatto di male? (III, III).
Gaia, una presenza amica, riesce a spostare Pietro per un attimo dalle sue angosce. Pietro resta a fissarla mentre si allontana, intanto prova a dare un nome a quello stato d’animo che gli è esploso dentro improvvisamente. Eccolo il nome. Gelosia. Dopo tanto tempo, è geloso di qualcosa. Qualcuno (II, VI). Per un attimo S’era dimenticato del figlio. Una sorta di miracolo (III, V).
Questo timido spunto è l’inizio di una contrastata presa di coscienza che promette un nuovo inizio, accettando la compagnia degli altri sul nostro cammino. Nella sala ristorante ritrova Agata accanto al loro tavolo. Ha iniziato a sparecchiare. Si volta verso di lui, ha gli occhi invasi di pianto. «Guardi.» Con una mano, con il palmo aperto, leggera, sta accarezzando Jacopo.… Pietro è colpito, finge di non esserlo, non vuole dare peso alla cosa. «Quanto è bello.» Agata non smette di piangere (III, VI).
Ma è una lotta ben dura il dover ammettere che “occorre riavere noi dagli altri” come diceva Cesare Pavese. No. Questo no. Pietro con la pietà ha chiuso. Jacopo, lo Scrondo, non è bello, né buono né bravo. Vorrebbe lei, la pietà, tornargli in gola come un fiotto d’acido dallo stomaco. Ma lui glielo impedisce (III, VI).
Fino all’epilogo dura questa lotta per risolversi in circostanze che è meglio lasciare alla lettura, ben consci, come l’Autore, che queste cose non succedono solo nei romanzi.
E come Daniele scrive nei ringraziamenti, occorre volgere lo sguardo anche A chi tende la mano, senza mai ricevere aiuto, o carezza. Ai dimenticati che resistono. A chi è andato giù.
In questa seconda parte della sua recensione al testo postumo del papa emerito Benedetto XVI, Zardin ci accompagna nella perlustrazione del rapporto Chiesa-stato, gettando luce sull’esigenza della libertà di coscienza come fondamento per la libera adesione alla fede, e dunque sulla contestazione di Joseph Ratzinger di qualsiasi pretesa fondamentalista di ritorno a forme attualizzate di alleanza trono-altare. La prima parte, ricordiamo, si era conclusa sulla sottolineatura da parte di Benedetto XVI del primato, nell’esperienza di una fede matura, della dimensione ontologica e veritativa sull’uomo rispetto a quelle, pur preziose, della morale e dell’estetica, troppo spesso ridotte a sentimentalismo e soggettivismo. Zardin ci mostra come l’originale agostinismo di papa Benedetto XVI non fosse una riedizione di schemi passati, ma piuttosto uno sguardo penetrante sulle esigenze di libertà e misericordia dell’uomo contemporaneo, all’interno di una dialettica sempre feconda e nuova tra fede e storia.
Su questa direttrice si innesta il secondo nodo cruciale di interesse che può essere rintracciato nei saggi entrati a comporre questa sorta di “testamento spirituale” lasciatoci da papa Benedetto, giunto al termine del suo percorso. Mi riferisco al modo in cui viene presentato l’impatto che l’appello alla sequela della verità del cristianesimo può avere sul contesto umano a cui si rivolge. Qui papa Benedetto non esita a riprendere un altro dei punti saldi della sua visione storico-teologica: nel tempo della storia, il “tempo dei pagani” (così lo definisce pensando al rapporto con la tradizione ebraica), di per sé esposto alla possibilità del rifiuto dell’alleanza con il vero Dio e la sua legge, l’accoglienza della fede cristiana non può accettare di corrompersi appoggiandosi allo scudo di tutela del potere (il potere di Cesare), e tanto meno all’imposizione costrittiva di un consenso obbligato, magari puntellato dalla violenza che aggredisce i diversi ed esautora ogni margine ipotizzabile di contestazione o di dissenso. L’intolleranza di un integrismo religioso che si fa anche pretesa di dominio globale sul mondo terrestre è antitetica rispetto allo spirito autentico della rivoluzione cristiana. Quest’ultima ha avuto come parte del suo codice genetico distintivo, poi non sempre portato a coerente dispiegamento, il compito di smantellare ogni pretesa di assolutezza della religione elevata a collante uniformatore di una comunità politico-territoriale. Lo “zelo” autoritario ed esclusivista della volontà di conquista di uno spazio umano magari recalcitrante appartiene ancora al vecchio orizzonte dell’alleanza antica (p. 33), immersa nella prospettiva a senso unico delle religioni che non avevano ancora conosciuto l’approdo al bilanciamento dialettico delle “due città” fra loro mescolate, ma allo stesso tempo distinte e non riconducibili a un unico principio di guida e di strutturazione normativa. Il contagio della fede nel Cristo redentore passava in origine e deve continuare a passare soltanto attraverso il rischio della libertà che pronuncia il suo sì di adesione alla chiamata da cui si sente percossa. Prima viene la grazia che si comunica, poi la mossa dell’io che riconosce l’inevitabilità di un cammino di immedesimazione.
In questa cornice si comprende perfettamente ‒ e qui il discorso di papa Benedetto tocca le punte di maggiore intensità coinvolgente ‒ perché la forma suprema della presenza della soggettività cristiana nel mondo non possa che coincidere con la figura del Figlio di Dio che si auto-espropria, offrendosi come carne sacrificale per la salvezza del mondo sul patibolo della croce. La straordinarietà del puro dono totale di Cristo, tutt’altro che interpretabile come sanguinosa “riparazione” in senso penale, finalizzata a sanare la frattura creata dalla colpa originaria, è il vertice della verità cristiana che si propone al mondo e, in quanto tale, reclama il sacrificio parallelo della volontà dell’uomo che le si affida. La forma di Cristo crocifisso, il Servo di Dio sofferente preconizzato dalla più ispirata letteratura profetica di Israele, è il centro verso cui tutto deve convergere, il cuore da cui si irraggiano le luci della rivelazione di Dio che sfocia nel suo culmine: al fondo della verità dell’essere non sta la potenza che fagocita e schiavizza, ma la debolezza gratuita dell’amore infinito che si dona e, donandosi, si espone alla contraddizione del farsi vittima, depredato dall’ostilità dell’uomo che può arrivare fino allo scandalo di non riconoscerlo come incarnazione del bene supremo per sé e il proprio destino.
La riconversione in senso cristocentrico della drammatica divino-umana conduce in modo diretto a introdurre il tema del primato dell’effusione del dono di misericordia del Dio trinitario al di sopra di tutto il resto. Il movimento della misericordia che si espande e attira nel suo spazio di novità redentrice l’uomo relegato nella distanza del suo limite è il perno autentico della storia del creato. La misericordia di Dio alla ricerca della salvezza dell’uomo è la fonte dell’unica “giustificazione” possibile: non quella della bilancia retributiva dei premi e dei castighi, ma dell’eccellenza sovrabbondante dell’amore senza riserve che vuole essere condiviso. È solo questa misericordia accolta e fatta fiorire nel cuore degli uomini che rigenera dall’interno la vita del mondo. All’inizio di tutto, sta il miracolo dell’amore incontenibile che si effonde e non viene mai meno: l’unica forza che va oltre le catene della morte. Essa è anche all’origine della missione cristiana (p. 9). Perché solo un “amore radicale e incommensurabile” come quello sprigionato dal “corpo risuscitato del Signore crocifisso” poteva agire come “reale contrappeso […] all’incommensurabile presenza del male. […] Di fronte alla strapotenza del male solo un amore infinito poteva bastare, solo un’espiazione infinita” (p. 90, ma si veda anche p. 95).
Si può aggiungere un ultimo corollario di altrettanto decisivo rilievo: è anche necessario “che noi ci inseriamo in questa risposta [al nostro male, alla nostra sofferenza] che Dio ci dà mediante Cristo” (p. 95). “Il Signore ha iniziato con noi una storia d’amore e vuole riassumere in essa l’intera creazione. L’antidoto al male che minaccia noi e il mondo intero ultimamente non può che consistere nel fatto che ci abbandoniamo a questo amore. Questo è il vero antidoto al male. […] È redento chi si affida all’amore di Dio” (p. 153). Nella scia della circolarità che si instaura, si radica la “pretesa” che la fede cristiana avanza “rispetto alla vita concreta”. La fede è chiamata a cambiare la forma di questa stessa vita, a riplasmarla secondo la propria misura. La vita come tale può risorgere, e diventare così, a sua volta, fonte di irradiazione di una luce che contagia nel fragile segno della testimonianza ecclesiale missionaria. Nella sua trama ordinaria, attaccandosi al modello paradigmatico di Cristo, la vita investita dalla fede tende a generare una morale, anch’essa ancorata al riconoscimento di un bene oggettivo e ai valori di fondo che aprono al suo perseguimento. La chiave di volta non sta però nell’apparato delle regole, nel dispositivo di una legge esterna codificata. Lo stile etico, per stare in piedi, non può che essere animato da un principio unitario vivificante: ha al suo centro un amore riconosciuto a cui si corrisponde, l’attaccamento a un Dio amoroso e presente, che abita con la sua prossimità ogni circostanza per cui ci si trova a transitare. Per riassumere in una massima lapidaria: “Il Dio trino, Padre, Figlio e Spirito Santo: non presupporlo ma anteporlo” (von Balthasar, citato a p. 155). In effetti, commenta a questo riguardo Benedetto XVI, “anche nella teologia, spesso Dio viene presupposto come fosse un’ovvietà, ma concretamente di lui non ci si occupa. Il tema ‘Dio’ appare così irreale, così lontano dalle cose che ci occupano. E tuttavia cambia tutto se Dio non lo si presuppone, ma lo si antepone. Se non lo si lascia in qualche modo sullo sfondo, ma lo si riconosce come centro del nostro pensare, parlare e agire”.
Un godibile romanzo storico di Lorenzo Roberto Quaglia, con tante informazioni sulla vita quotidiana degli antichi romani e qualche salutare domanda aperta sulle origini del cristianesimo. Consigliato per i ragazzi delle scuole medie e del primo biennio delle superiori.
Arrivai a Cesarea qualche giorno prima delle Idi di marzo, all’epoca in cui Tiberio era Cesare Augusto già da sedici anni e in Giudea era prefetto Ponzio Pilato.
Così prende inizio il piccolo romanzo di Lorenzo Roberto Quaglia, impiegato di banca a Milano con il gusto della scrittura. Già forte di una serie di fortunati gialli, l’autore si cimenta ora con la storia antica, rivelando una approfondita conoscenza della vita quotidiana e della struttura della civiltà romana. Il protagonista, Marco Claudio Acuto, è un senatore romano che, giunto alla vecchiaia, nella sua villa di Taormina torna con la mente ad una lontana vicenda occorsagli appunto nel sedicesimo anno dell’impero di Augusto. Un buon cittadino romano deve avere i piedi ben saldi sul terreno, e le tante fole che circolano tra il popolo ebreo non possono certo scuotere le sicurezze guadagnate da Roma nella sua lunga storia: la filosofia val bene per i greci, che nelle loro divisioni non seppero costruire un impero, e neppure difenderlo, quando il grande Macedone ne edificò uno per loro, scioltosi però come neve al sole dopo la morte prematura di Alessandro. Fu poi Roma, col suo pragmatismo e con la sua arte politica e militare, a raccoglierne l’eredità. Dunque, che i popoli d’Oriente coltivino pure le loro fiosofie, i loro culti e le loro tradizioni, a patto però che siano sottomessi e non interferiscano con la politica di Roma. Questa era la certezza granitica di Marco Claudio Acuto e di suo fratello Valerio Claudio Bellator, comandante della guarnigione di Cesarea, quando, per un imprevedibile intreccio del caso, Claudio Acuto che da Roma era appena giunto in Palestina per far visita al fratello, si ritrovò ad assistere ad uno strano processo, nel quale ebbe luogo un confronto teso tra il prefetto e l’accusato:
‘Che cos’è la verità?’, gli domandò Pilato incrociando lo sguardo di sua moglie Claudia Procula che stava seguendo l’interrogatorio vicino alla colonna del portico. Anche lei, come molti altri, portava sul volto i segni di chi stava assistendo ad un evento particolare, straordinario, tragico. Appariva scossa e in alcuni momenti si muoveva di scatto come se il suo corpo fosse attraversato da brividi.
“La verità è dal cielo”, rispose Gesù a Pilato.
“Non c’è verità sulla terra?”
Era una domanda fin troppo facile per Pilato, cresciuto nella certezza granitica della politica e nello scetticismo dominante nel suo tempo. Il narratore non ce lo dice, ma ci lascia immaginare il tono della voce del prefetto, leggermente sprezzante, sufficientemente ironica per disdegnare questi profeti che vengono a parlare di verità quando a malapena gli uomini riescono a riconoscere che cosa sia utile per se stessi e per l’Impero. Ma quel nazareno, con la tunica sgualcita dalle violenze inflitte dalla soldataglia, malfermo sui sandali consumati da giornate di cammino, era lì a sfidarlo ancora, senza abbassare lo sguardo penetrante dietro agli zigomi tumefatti. Era lì davanti, a tener testa al prefetto, con quella sua indomita supponenza di profeta giudeo. Così, rompendo il lungo silenzio, gli rispose:
“Tu vedi come quelli che dicono la verità sono giudicati da coloro che hanno autorità sulla terra”
Per un istante, Pilato sembrò spiazzato dalla riposta di quell’uomo, così apparentemente lontano dalla figura del rivoluzionario, ma il cui sguardo era magnetico, certamente capace di affascinare e attrarre a sé masse di disperati, di gentaglia senza arte né parte, capace di tutto…
Il prefetto prese tempo per riflettere, dopo chiese a Gesù:
‘Cosa farò di te?’
‘Quello che ti è stato assegnato’
Certo! Quello che gli era stato assegnato: non c’era bisogno che quel profeta glielo dicesse! Così Pilato fece quello che doveva fare, o meglio, quello che non avrebbe dovuto fare, che nessuna legge romana gli avrebbe mai chiesto di fare, ma che gli era comunque assegnato dalla difficile situazione politica, da un sinedrio ribollente e pretenzioso, e per di più in un momento molto delicato, in cui gli zeloti rimestavano nell’ombra, pronti a colpire quando meno te l’attendevi. Gli zeloti sono, nel romanzo di Quaglia, una presenza ineffabile, come una minaccia sospesa nell’aria di cui nessuno osa parlare apertamente.
Come poi andò la storia noi lo sappiamo, ma Marco Claudio Acuto ancora non poteva saperlo, e il narratore-protagonista ci guida dentro alle progressive scoperte di quei giorni febbrili: così egli si trovò, nel giro di pochi giorni, dinanzi ad una storia letteralmente incredibile, umanamente sconvolgente. Quaglia ci accompagna con la sua scrittura dentro alla scoperta da parte di Marco Claudio Acuto di un evento inatteso e incomprensibile, che lui ha potuto intercettare solo di sfuggita, per sentito dire, e che passa attraverso i racconti di persone che si presentano ai suoi occhi del tutto assennate e ragionevoli e che proprio per questo sconcertano il protagonista, che non riesce a darsi ragione di come certi racconti di miracoli e resurrezioni possano venire da persone così stimabili: persone di rango e ragionevoli, come è Giuseppe di Arimatea, o altre più umili ma concrete, come Pietro il pescatore, o più raffinate e sensibili alla cultura, come sembra essere Giovanni. Fino ad incontrare Lazzaro, che dice di sé di essere morto e poi risorto per opera di quel Gesù che però, proprio lui, è finito croce come l’ultimo dei ladri e degli assassini.
Blaise Pascal diceva che l’apice a cui può giungere l’umana ragione è l’apertura al Mistero che lo supera. Questo concetto di apertura e di “allargamento” della ragione a qualcosa che non è prodotto o dedotto da essa stessa è uno dei maggiori lasciti dell’insegnamento di papa Benedetto XVI, su cui ci sarà molto da lavorare ancora per comprenderne il senso più profondo. Quell’espressione di Pascal, infatti, la si può intendere in modo ambivalente: o come rinuncia a un dispiegamento pieno della ragione, nel senso di un fideismo simmetricamente opposto al razionalismo; oppure come riconoscimento di una ragionevolezza del Mistero dell’esistenza e della rivelazione che accade per fede, attraverso un incontro donato, eccezionale e tuttavia umano. In questa seconda accezione sta l’idea di una ragione “allargata”, tesa a riconoscere il senso dell’avvenimento cristiano senza mai rinunciare alle proprie domande, aperta a risposte umanamente imprevedibili e incontrollabili (nel senso preciso dell’impossibilità di un preteso “dominio” sulla realtà). È con questo sguardo che un uomo del nostro tempo può ancora lasciarsi stupire dall’eccezionalità della persona storica di Gesù, come papa Benedetto ha suggerito nel suo Gesù di Nazaret, o come testimoniò Vittorio Messori nel suo Ipotesi su Gesù, libro che ne segnò la conversione dal laicismo radicale alla fede.
Con questo piccolo agile romanzo, in un centinaio di pagine Lorenzo Roberto Quaglia pone il lettore nell’orizzonte di questa stessa domanda sulla ragionevolezza della fede cristiana: Marco Claudio Acuto, che si reca in Palestina per far visita al fratello centurione nei giorni agitati della cattura e della messa a morte di Gesù, e che solo per un singolare caso viene a trovarsi nelle stanze della prefettura, come in un lampo incrocia lo sguardo del condannato e questo semplice fatto, accaduto in un processo usuale e perfino banale per un nobile romano, lo segnerà per tutta la vita: da principio nella forma di un rifiuto razionalisticamente chiuso alla ragionevolezza della fede che pure intravede in tutta la sua forza spirituale in Giuseppe di Arimatea, in Pietro, in Giovanni, in Lazzaro e nelle tre Marie. Egli cerca e incontra queste donne e questi uomini per capire meglio, di più, ciò che ha solo intravisto in un istante: vuole incontrarli per capirne l’origine di quella loro nuova certezza, così incredibile eppure così solida, sul senso della vita e della morte. E anche quando quegli eventi sono ormai lontani negli anni, nonostante permanga in lui una ragione ancora chiusa e misurante, tuttavia lo sguardo penetrante di quel giudeo incrociato un giorno davanti al prefetto di Gerusalemme lo perseguiterà per il resto della sua esistenza, tenendo aperta in lui una domanda che non si sarebbe mai più ad acquietata.
Fino a un finale inaspettato, con qualche colpo di scena…
Il libro, arricchito in appendice da un glossario dei termini e dei modi di dire latini presenti nel testo, si presta ad un lavoro didattico su più piani: nell’ambito della storia per un’introduzione alla vita quotidiana sotto l’Impero romano; nell’ambito dell’insegnamento della religione cattolica per un approccio al tema della ragionevolezza della fede secondo la categoria della fede come avvenimento; nell’ambito della letteratura per avviare i ragazzi al significato e ai diversi registri stilistici della scrittura creativa, evidenziandone gli aspetti strutturali: autore e narratore, protagonista e personaggi minori, fabula e intreccio, prolessi e analessi, ecc. Il libro può dunque essere un ottimo strumento per un lavoro multidisciplinare.
L’autore: Lorenzo Roberto Quaglia è nato nel 1966 a Milano, dove si è laureato in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi, e dove lavora come impiegato di banca. Nel 2010 segue un primo corso annuale di scrittura creativa, cui ne seguono altri, in particolare quelli organizzati dalla Scuola Flannery O’Connor presso il Centro Culturale di Milano (CMC), tenuti da Andrea Fazioli e Francesco Napoli. Dal 2011 scrive romanzi, per lo più di genere poliziesco.
Il libro: Lorenzo Roberto Quaglia, L’indagine che cambiò la vita di Marco Claudio Acuto, cittadino dell’Impero romano, Ed. Youcanprint, Lecce 2022.
Recensione di Benedetto XVI, Che cos’è il cristianesimo. Quasi un testamento spirituale, a cura di E. Guerriero e G. Gänswein, Mondadori, Milano 2023.
In questa prima parte Zardin ci accompagna nella perlustrazione del rapporto fede-ragione in ordine alla verità, svelandoci l’irriducibilità del pensiero di Joseph Ratzinger alle opposte riduzioni tradizionalista e ultra-modernista. La fede, ci dice Benedetto XVI, non è affare di puro sentimento o di puro soggettivismo: essa si presenta fin dall’origine come critica radicale all’alienazione delle antiche religioni prone ai poteri di questo mondo e come prosecuzione feconda della grande tradizione filosofica ellenistica.
L’opera intellettuale di Benedetto XVI è da tempo il campo di un conflitto di interpretazioni in cui la varietà delle opinioni di chi si pone davanti ai suoi testi finisce per produrre un effetto di appiattimento, se non di vera e propria distorsione: si enfatizza ciò che viene percepito più congeniale, in linea con i propri punti di vista precostituiti, mentre si lasciano in ombra le provocazioni che potrebbero mettere in crisi o costringere a cambiamenti salutari e, alla fine, prevale la tendenza ad annettere la sua parola in un reticolo di interessi che possono anche essere marcatamente divergenti. I conservatori accentuano gli elementi che legittimano, ai loro occhi, la difesa tenace degli assetti tradizionali, oppure mettono in evidenza, per denunciarle, le fughe in avanti che, a parere dei più oltranzisti, hanno contribuito a sgretolarli. L’esatto contrario fanno i riformisti radicali. Destra, sinistra, centro (direi soprattutto la destra degli schieramenti in cui si frammenta l’élite intellettuale) si scontrano su come piegare a proprio vantaggio la voce dell’illustre teologo assurto ai massimi vertici del governo della Chiesa di Roma. Forse è questo il destino inevitabile degli innovatori religiosi, che riescono a sporgersi al di là dagli schemi del pensiero già stabilito, e perciò disorientano, sfuggendo a una presa totalmente assimilatrice. Per contenere il rischio, l’unico rimedio è mettersi umilmente in ascolto di tutte le implicazioni racchiuse nel messaggio che ci viene consegnato, comprese le più ostiche o inaspettate: occorre disporsi a seguire la traccia oggettiva della parola offerta, invece di lasciarsi guidare dalla forza condizionante dell’autorispecchiamento.
Se si adotta questa linea di approccio, si può arrivare a sostenere che il nucleo forse più dirompente degli ultimi scritti riuniti nella raccolta pubblicata postuma, subito dopo la scomparsa di Benedetto XVI, sia la risoluta difesa della dimensione razionale presupposta dalla scelta cristiana: la fede non è una pura opzione unilaterale, ma contiene in sé (ed è giusto che continui a rivendicare) una pretesa di verità. Il nesso tra fede e ragione ‒ potremmo anche dire tra cuore e riconoscimento del vero che scaturisce dalla coscienza, interpellata dai segni della realtà che le si fa incontro ‒ è visto nei capitoli di esordio di Che cos’è il cristianesimo in una prospettiva rigorosamente storica: è dalla lezione di come il cristianesimo si è posto nel mondo, fin dalla sua prima diffusione nel contesto mediterraneo, che Benedetto XVI continua a ricavare la conferma che a essere chiamato in causa è l’accesso alla struttura ultima di ciò che è l’essere di Dio, al senso dell’esistere della creatura di fronte a lui, e quindi l’accesso alla risposta più compiuta che possa soddisfare il bisogno insito nel destino dell’uomo vivente. Ripetutamente Benedetto XVI sottolinea che l’annuncio cristiano delle origini non si è posto in continuità con il discorso delle religioni preesistenti, ma come la sua contestazione definitiva. Si partiva da una scelta di rottura, in forza della quale i testimoni della nuova fede che universalizzava il monoteismo giudaico dell’Antica Alleanza, spalancandolo alla totalità dei gentili, si proponevano di smascherare errori e camuffamenti dei culti idolatrici del politeismo antico, incardinato nelle istituzioni del potere mondano, così come l’insufficienza della legge mosaica e i limiti insuperabili delle filosofie autocostruite dall’uomo alla ricerca del volto segreto dell’Assoluto. Non a caso, scrive papa Benedetto, “per noi cristiani Gesù Cristo è il Logos di Dio, la luce che ci aiuta a distinguere tra la natura della religione [si potrebbe chiosare: della vera religione] e la sua distorsione” (p. 13). La presa di distanza si configurò, insiste l’autore, come un oltrepassamento “estremamente critico” (p. 12). A seguito dell’incarnazione, “l’unico Dio entra nella storia delle religioni e depone gli dei. […] Il cristianesimo venne percepito come liberazione dalla paura nella quale la potenza degli dei aveva imbrigliato gli uomini. In fondo, il possente mondo degli dei crollò perché entrò in scena l’unico Dio e pose termine alla loro potenza” (p. 18). L’“intera contesa della storia delle religioni” termina con “la vittoria dell’unico vero Dio sugli dei che non sono Dio” (p. 19).
Ma cosa rese possibile l’esito rivoluzionario di questo disincantamento emancipatore dei fondamenti estremi dell’esistere? Papa Benedetto su questo non nutre il minimo dubbio. Anche qui smentendo un sentire largamente diffuso tra gli stessi ammiratori che lo seguono più da vicino, la sua ricostruzione storica invita a tenere fermo che il fattore scatenante non vada cercato all’interno della sola forza trasformatrice della nuova religione cristiana, ma prima di tutto nell’alleanza che questa sentì la necessità di stabilire, nella dinamica del suo stesso costituirsi, con quanto di meglio si poteva scovare nelle risorse, pure in sé inadeguate e parziali, della sapienza filosofica elaborata dalla civiltà antica. Da questo patrimonio furono estratte le parole chiave della fede neotestamentaria, il suo linguaggio espressivo, le categorie fondamentali della dottrina sviluppata nel travaglio dei primi secoli, persino le armi della polemica contro l’illusorietà menzognera delle visioni tradizionali del mondo contro cui il cristianesimo dovette lottare per farsi spazio. Il contatto tra il monoteismo giudaico che attendeva di essere portato a compimento e la ragione fecondata dalla fioritura del pensiero greco nel contesto antico e nella grande koiné dell’ellenismo fu il vero “evento rivoluzionario” che capovolse il senso della storia universale centrata sui rapporti tra l’uomo e l’alterità non dominabile della pienezza del divino. Per questo, prosegue papa Benedetto, “la fede cristiana poté presentarsi nella storia come la religiovera”. “La pretesa di universalità del cristianesimo si basa sull’apertura della religione alla filosofia. È così che si spiega perché, nella missione sviluppatasi nell’antichità cristiana, il cristianesimo non si concepì come una religione, ma in primo luogo come prosecuzione del pensiero filosofico, vale a dire della ricerca della verità da parte dell’uomo. […] In ultima analisi il successo di questa missione si basa proprio su tale incontro. […] Questo purtroppo, nell’epoca moderna, lo si è sempre più dimenticato. La religione cristiana viene ora considerata come prosecuzione delle religioni del mondo e ritenuta essa stessa come una religione fra o sopra le altre” (tutte le ultime citazioni da p. 34-35).
Come si vede, si tratta di affermazioni molto esplicite ed estremamente impegnative, che vanno in un senso ben diverso da quanto auspicato dai riformatori che, per ricondurre alla sua fisionomia autentica un cristianesimo oggi avvertito in crisi, auspicano la sua riduzione a un non ben definito ‘nucleo essenziale’, in buona sostanza spogliato, o comunque alleggerito di contenuti razionali in senso forte, passando attraverso quella che in anni recenti veniva etichettata come la “deellenizzazione del cristianesimo”. La posizione ribadita in questi ultimi scritti di Benedetto XVI è con ogni evidenza ben diversa. Qui si parte dalla netta convinzione che “la questione della verità” vada identificata con “quella che in origine mosse i cristiani più di tutto il resto”, e che ancora oggi non può essere “messa tra parentesi”: la “rinuncia alla verità […] è letale per la fede”. “La fede perde il suo carattere vincolante e la sua serietà se tutto si riduce a simboli in fondo intercambiabili, capaci di rimandare solo da lontano all’inaccessibile mistero del divino” (p. 11). E ancora: per contrastare il rischio della degenerazione nell’intolleranza (la violenza dei totalitarismi religiosi lo conferma rischio reale anche nel presente dei nostri giorni) non si deve recedere dal principio che “il cristianesimo comprende sé stesso essenzialmente come verità e su questo fonda la sua pretesa di universalità”(p. 35; le sottolineature sono mie).
La radicalità dell’appello al sostegno della ragione ‒ una ragione ovviamente dilatata, aperta alla totalità di un vero che si svela attraversando i diaframmi che lo tenevano celato e solo oscuramente decifrabile a fatica ‒ è senza mezzi termini spiazzante, tutt’altro che uno stereotipo scontato. Passano in secondo piano le dinamiche persuasive del bello e del buono, per far di nuovo emergere il primato che chiede di presidiare lo spazio tradizionalmente riservato (o che è da restituire) al riconoscimento di ciò che è oggettivo e si impone all’evidenza per la sua trasparenza rivelatrice: si potrebbe parlare di una risoluta riproposta del primato dell’ontologia rispetto alla dimensione dell’etica e così pure rispetto all’esperienza del fascino ‘estetico’, della pura attrattiva di un gusto percepito esistenzialmente, o forse sarebbe meglio dire sentimentalmente.
Si è svolta (10 marzo) in località Pontecurone (c/o Tortona) un’affollata manifestazione studentesca per la Giornata europea dei Giusti (6 marzo). Nel centro del paese è stata posta una targa a futura memoria di ben 8 nuovi Giusti, riconosciuti dalla Yad Vashem di Gerusalemme, tutti regolarmente religiosi appartenenti al carisma di San Luigi Orione, che è nato qui a Pontecurone. Questi religiosi, durante il II conflitto mondiale, precisamente dopo l’otto settembre, mentre c’era l’occupazione tedesca dell’Italia del Nord, hanno salvato centinaia di ebrei con relative famiglie dalla deportazione nei lager nazisti del Nord Europa.
La famiglia orionina su input di Pio XII aveva costituito una rete clandestina di uomini coraggiosi, ancorché preti o suore, che da Torino a Genova a Roma e nella zona di Alessandria operava, anche a rischio della propria vita per nascondere o far espatriare gli ebrei: don Carlo Sterpi, don Gaetano Piccinini, don Giambattista Lucchini, don Enrico Sciaccaluga, don Giuseppe Pollarolo, sr. Maria Manente, don Lorenzo Nicola, sr. Stalislaa Bertolotti. L’iniziativa degli studenti ha poi acquistato un significato particolare perché questa targa era stata “vandalizzata” l’anno scorso ad opera di balordi e poi perché nella targa è stato aggiunto un nome che prima non c’era, don Carlo Sterpi, che lo Yad Vashem di Gerusalemme solo di recente ha riconosciuto Giusto tra le nazione. A rendere particolarmente degna di nota l’iniziativa di quest’anno è stata la presenza-oltre un folto numero di abitanti- di ben 87 studenti delle scuole De Amicis e Zanardi di Pontecurone con i rispettivi insegnanti. Pur presenti le autorità, dal sindaco di Alessandria a quello di Pontecurone e i rappresentanti di numerose associazioni cittadine, sono stati gli studenti i protagonisti che, prendendo in pubblico il microfono, hanno fatto conoscere le gesta di questi Giusti, che loro avevano studiato in classe nelle ore di storia. E poi c’è stata per la prima volta la presenza del nuovo Vescovo di Tortona, Guido Marini che ha fatto capire ai ragazzi come oggi si diventa giusti. Prendendo lo spunto dai Giusti si è chiesto da dove questi abbiano potuto trovare il coraggio di rischiare la vita per gli altri, ebrei e non. La risposta poteva sembrare scontata: forse perché amando Cristo non potevano nn soccorrere il prossimo? Troppo scontato! Il vescovo ha precisato invece che bisogna stare attenti a quel che diceva don Carlo Sterpi, l’ultimo dei Giusti che è stato inserito nella nuova targa restaurata. Don Sterpi diceva sempre a se stesso : ” se seguo quell’uomo anch’io diventerò come lui”: si riferiva a San Luigi Orione, un gigante nell’aiutare il prossimo. Di lui si ricorda infatti che nel terremoto di Messina del 1908 si era precipitato laggiù – all’epoca un viaggio pericoloso- per assumere il ruolo di coordinamento dei soccorsi! Che dire poi anche del terremoto della Marsica dove si era occupato degli orfani ( adottandone un bel po’) che avevano perso i genitori sotto le macerie? Don Sterpi vedeva in don Orione un vero uomo. Il vescovo ha voluto con questi riferimenti sgomberare il campo da ogni equivoco: non si diventa uomini veri o non si va a Dio a forza di volontà e scrupoli ma seguendo il fascino e l’attrattiva di qualcuno che è vero, che è “giusto”. Tutti possiamo esser giusti, non solo perché ci si educa -come a scuola- con gli esercizi o, meglio, allenandosi a riconoscere volta per volta (e perciò a non tradire) ciò che è vero, che è buono, che è bello e giusto ma soprattutto seguendo chi su questa strada è più avanti di noi. E c’è sempre qualcuno che ci precede nell’essere più vero. Da qui l’invito del Vescovo Guido a fare ogni giorno la cosa “giusta”: seguire una amicizia giusta, amici giusti che son capaci di studiare- giocare- divertirsi avendo come scopo che nulla è più bello, perciò più umano, che dare la vita per gli altri, come lo stesso Gesù ha insegnato per primo …a tutti e anche a questi otto giusti!! Alla fine sono stati lanciati verso il cielo tanti palloncini quasi a ricordare che sotto questo stesso cielo ancora oggi muoiono tanti innocenti in terra ( vedi guerra in Ucraina e non solo) e in mare (vedi la tragedia di Cutro).
Proseguono le testimonianze sul primo anno di guerra affidate alla rivista “La Nuova Europa”. Svetlana Panič, una russa espatriata, riflette sul significato più profondo della parola “speranza” e sul senso del tempo, apparentemente schiacciato ormai solo sul presente: “Oggi per me lo spartiacque invalicabile passa fra chi ritiene che esista una ragione ‘di Stato’, metafisica o comunque superiore per cui si possa invadere la terra altrui e uccidere i suoi abitanti, e chi pensa che la guerra sia un male assoluto e indiscutibile. È cambiata la concezione stessa della parola ‘nostri’, che non si riferisce solo a quelli con cui condividiamo il modo di pensare e ‘le citazioni’, ma soprattutto a coloro con cui puoi stare insieme dentro una comune speranza”. Andrej Desnickij, espatriato a Vilnius, parla del tradimento dei chierici e di una nuova speranza per il futuro: “La guerra è la tragedia della separazione. Ma anche una possibilità di incontri”. Il filosofo Massimo Borghesi lancia il suo grido di dolore per una guerra fortemente voluta da Putin e strisciata per otto anni nel colpevole silenzio delle diplomazie internazionali, che non lascia intravedere al momento alcuna via d’uscita. L’Europa sembra così sempre più spettatrice impotente: “Oggi ‘la guerra in Ucraina è sulla scala strategica del mondo scontro fra Russia e Stati Uniti d’America’ (Caracciolo), non primariamente guerra tra Europa e Russia. L’Europa è divisa, dilaniata essa stessa al suo interno, sulle misure da adottare. Succube del grande gioco. Impotente, perciò, a mediare, a indicare soluzioni. Questa è la vera tragedia nella tragedia: essere spettatori di una guerra e non essere in grado di intravedere soluzioni che possano porvi fine”. Infine, l’archimandrita ortodosso Kirill Hovorun, ucraino, denuncia la contraddittoria ideologia “Cristo-fascista” putiniana che da ben prima del 2014 aveva prearato la guerra all’Ucraina: “L’ideologia del ‘mondo russo’ estrapola l’idea della purezza della fede applicandola al piano socio-politico e inscrive sui suoi vessilli slogan di lotta per ‘i valori tradizionali’ contro il presunto Occidente moralmente corrotto”.
A un anno esatto dall’inizio dell’aggressione putiniana all’intera Ucraina e dopo otto anni dall’inizio del conflitto di frontiera nel Donbass, il fatto davvero stupefacente è che l’Ucraina, oggi, ancora resiste. Certamente resiste l’esercito, sostenuto dall’Occidente, ma innanzitutto resiste il popolo ucraino, che ha mostrato un coraggio e una volontà di tenuta su cui nessuno, un anno fa, avrebbe scommesso. La rivista “La nuova Europa”, che in questo anno di guerra ha sempre offerto uno sguardo originale al di là dei calcoli politici, pubblica una riflessione a più voci: padre Mauro Lepori, abate generale dell’Ordine Cistercense, e Elena Zemkova, dissidente russa esponente di “Memorial”, ci testimoniano l’attenzione all’umano e la resistenza morale; l’ex ministro agli esteri Mario Mauro suggerisce un punto di osservazione storico-politico: “La vera sorpresa di questa guerra è nella reazione del popolo ucraino”; infine il poeta dissidente bielorusso Dmitrij Strocev documenta una resistenza culturale e umana dinanzi ad una guerra pianificata ben prima dell’aggressione russa per interposta persona al Donbass nel 2014.
I contributi, predisposti nella prospettiva di un sapere riflessivo sull’esperienza, offrono un ampio spettro di riflessioni sul senso della sperimentazione e sulle sue prospettive future.
Recentemente la stampa italiana ha evidenziato un intervento del patriarca Kirill dello scorso 21 settembre, che enfatizzava il ruolo della fede ortodossa nel presente conflitto. In particolare colpiva il fatto che egli indicasse la fede come un fattore favorevole al coraggio in battaglia. Peraltro, il tema del rapporto fede-guerra ha attraversato anche la tradizionale dottrina cattolica in rapporto alla “guerra giusta” (ancora presente oggi, con chiare linee di demarcazione, nel Catechismo della Chiesa Cattolica[1]) ed enfatizzato ancora nella Grande Guerra da personalità che ebbero un ruolo importante nella storia: si pensi a don Angelo Roncalli, allora cappellano militare, e a padre Gemelli, che in seguito avrebbe fondato l’Università Cattolica. Tuttavia, mentre già dagli inizi del secolo scorso il magistero cattolico, da Benedetto XV fino a papa Francesco, passando dalla decisiva Pacem in Terris di Giovanni XXIII, ha avuto un’importante evoluzione verso la dissociazione della fede dalla violenza e il rifiuto sempre più marcato della guerra, dobbiamo osservare che un analogo percorso è mancato o perlomeno si è interrotto al livello più alto del magistero della Chiesa ortodossa russa: in essa, almeno nella gerarchia, permane una visione del rapporto stato-nazione-religione che oggi opera nella direzione di uno scontro aperto tra l’Oriente, inteso in senso panrusso, e un Occidente percepito come luogo di scisma e discordia.
Siamo andati allora a cercare sul sito del Patriarcato di Mosca e di tutta la Russia il contenuto di quel discorso di Kirill del 21 settembre 2022, scoprendo che nella stessa giornata egli tenne non uno, ma due discorsi, entrambi riconducibili direttamente o indirettamente alla guerra in atto. Nel primo discorso del mattino, pronunciato a Veliky Novgorod in occasione del 1160° anniversario della «призвание варягов» (“vocazione dei Varangiani”)[2] dell’862 d.C., Kirill cercò di individuare alcuni tratti nazionali che connotano la Russia fin dalle origini e afferma infine due principi, “confermati dalla storia”:
“la realtà sociale è un riflesso dello stato spirituale delle persone e il frutto dei loro sforzi comuni” tanto che “il declino della vita spirituale del popolo portava inevitabilmente alla discordia nella vita dello Stato”;
“La vita e il benessere dello Stato non è responsabilità solo di alcuni leader politici, ma causa comune di tutto il popolo”
Ivan Il’in: da Hegel a Hitler, a Putin
Questi principi indicano uno stretto legame tra la vita spirituale di un popolo e la determinazione come stato. È questa una prospettiva ampiamente percorsa da Hegel e riproposta dal filosofo Ivan Il’in, un controrivoluzionario “russo bianco”, esiliato da Lenin sulla “nave dei filosofi” del 1922 e approdato in Germania, dove divenne sostenitore dell’ascesa di Hitler. In seguito approdò a quello che fu definito come un fascismo russo e cristiano”[3]. Ivan Il’in è considerato da alcuni uno dei principali ispiratori dell’ideologia nazionalista di Putin, che nel 2009 fece consacrare la sua tomba dopo il trasferimento delle sue spoglie in Russia. Kirill lo cita esplicitamente in questi termini: “L’eccezionale pensatore russo Ivan Il’in ha scritto correttamente che una sana statualità è impossibile senza un senso della propria dignità spirituale. La dignità spirituale del nostro popolo è indissolubilmente legata alla fede ortodossa, nella quale gli antenati trassero ispirazione e coraggio per superare le difficoltà e andare avanti nonostante tutte le prove.
La sana statualità deriva certamente dalle peculiarità della mentalità delle persone e serve come una sorta di continuazione di esse”. Si vede bene, qui, come lo spirito del popolo russo è identificato da Kirill fin dalle origini con l’ortodossia russa. Questo spirito fonda uno Stato, la cui forza e unità consiste nella fedeltà all’ortodossia stessa. È una concezione di stato e di nazione indissolubilmente legati e indistinguibili che trae la sua origine nella tradizione slavofila, la quale vedeva nell’Occidente la fonte di tutti gli scismi, di tutti i materialismi e di tutti i cedimenti dello zarismo. Kirill terminò questo suo primo discorso con queste parole: “Il cristianesimo ha plasmato i tratti migliori del nostro carattere nazionale: capacità di reagire e misericordia, amore per la verità e generosità. Con l’adozione della fede ortodossa, la vita spirituale del popolo si è trasformata e si è rinnovata anche la sua autocoscienza di stato, che d’ora in poi ha cercato di organizzare la vita sociale sui valori evangelici. La ricerca di relazioni basate sulla giustizia e sul rispetto reciproco, la volontà di proteggere i deboli e aiutare gli oppressi, la pace e la lealtà alla parola data: questi e altri principi morali hanno ampiamente determinato la politica perseguita dallo stato in più di mille anni di storia russa. La Russia è stata custodita e costruita dalla memoria di Dio. Possano queste parole di Il’in, piene di profonda verità interiore, trovare sempre conferma nella nostra vita e operare a beneficio della Patria. Prego che non dimentichiamo mai le origini spirituali della civiltà russa, che rimaniamo fedeli a Cristo e alla Sua Chiesa, che il Signore,vedendo la nostra forte fede e amore per la Patria terrena, benedica con la pace il popolo russo e lo visiti con molti grazie e doni”.
Con queste premesse, nel pomeriggio il Patriarca affrontò il tema sopra ricordato del rapporto tra fede e coraggio in battaglia in un secondo discorso che tenne presso il Convento Zachatievsky di Mosca in ricordo della battaglia di Kulikovo (8 settembre 1380). Con quella battaglia l’esercito russo, consacrato in quell’occasione alla Santissima Theotokos (“Madre di Dio”), affrontò sulle rive del Don i Tataro-Mongoli e i Polacco-Lituani, determinando la disfatta del nemico ad opera del principe di Mosca, Dimitrij, che da allora prese il nome di Donskoj. Così Kirill: “Perché la Russia è rimasta così determinata? Perché la Russia ha mantenuto la sua lingua, la sua fede, la sua cultura e anche sotto la dominazione straniera, la nostra vita nazionale ha continuato a svilupparsi. Ora chiediamoci: perché? C’è solo una risposta: la fede ortodossa, la Chiesa ortodossa era la custode della vita spirituale delle persone. La gente ha capito che puoi ritirarti da qualsiasi cosa, ma non puoi mai ritirarti dalla fede (…). Naturalmente, tutto questo era connesso con la fede più profonda del nostro popolo. Perché la fede rende una persona molto forte, perché trasferisce la sua coscienza dalla vita quotidiana, dalle preoccupazioni materiali alla cura dell’anima, per l’eternità. E quando questa dimensione legata all’eternità è forte in una persona, allora diventa invincibile, perché smette di aver paura della morte. Vale a dire,la paura della morte spinge un guerriero fuori dal campo di battaglia, spinge i deboli al tradimento e persino a ribellarsi al fratello.
Ma la vera fede distrugge la paura della morte, e quindi tutta la meschinità e il tradimento umani, ed è un grande sostegno per le persone nella costruzione della loro vita comune. Ecco perché la fede è così importante per la creazione della vita, della società e dello stato. E se le persone rifiutano questo potere e fanno affidamento solo sul potere del diritto o sul potere di gruppi e partiti politici, allora questo tipo di unità è sempre temporanea: il gusto per i partiti e gli ideali politici scompare e tutto inizia a sgretolarsi. E quindi è importante che alla base della nostra vita nazionale, come grande priorità, ci sia la fede, e con essa un sistema di valori cristiani che elevino l’anima e conducano una persona che crede con convinzione alla vita eterna, e quindi invincibile.
Lo scandalo dello scisma in Ucraina
È a questo punto che, come d’emblée, il discorso di Kirill, che guardava alle antiche origini della Russia e alle sue storiche battaglie fondative, da celebrativo si fa politico e viene immediatamente rivolto alla presente guerra in Ucraina, le cui radici sono cercate nello scisma ecclesiastico che ha rotto l’unità della nazione ortodossa russa: “Oggi la nostra Patria, la Russia, la Russia storica sta attraversando dure prove. Sappiamo cosa sta succedendo in Ucraina. Sappiamo quale pericolo incombe sul popolo ucraino, che sta cercando di riformattarsi, (переформатировать), per fare uno Stato contrario alla Russia, ostile alla Russia. È molto importante che nei nostri cuori non ci sia la sensazione che vi sia un nemico. Dobbiamo pregare oggi perché il Signore rafforzi i sentimenti fraterni dei popoli della Santa Russia, affinché l’unità della nostra Chiesa diventi sempre più forte, che è davvero una garanzia di pace nelle distese della Russia – ecco perché il crollo del nostro Paese è iniziato con tentativi di rompere la Chiesa, creare scismi e separazioni. Il nemico sapeva che questo punto doveva essere colpito. Ma sebbene abbiamo subito perdite, e uno scisma pericoloso, peccaminoso e sgraziato sia sorto in Ucraina, allo stesso tempo la fede ortodossa è preservata lì, e i nostri fratelli e sorelle, arcipastori e pastori sono uniti e, credo, continuano a pregare con noi attorno al trono del Signore e per la fine della guerra intestina e per il ripristino della pace nelle distese della Russia storica”. Merita di essere osservato con grande attenzione il linguaggio utilizzato da Kirill: in Ucraina, afferma Kirill, non c’è un “nemico”, poiché essi sono chiamati all’unità russo-ortodossa, ma subito dopo tale affermazione è capovolta: in Ucraina vi è un nemico, che ha voluto uno scisma che reca un vulnus all’unità della nazione, e con ciò stesso all’unità del popolo (stato-nazione) russo.
Nella conclusione di questo suo discorso religioso-patriottico, Kirill rivendica due punti fondamentali:
Non c’è unità della nazione senza unità spirituale-religiosa;
La guerra è nata dallo spirito scismatico, e solo nel ritorno dei popoli della Grande Russia storica alla comunione ortodossa sarà possibile una vera pace.
L’illusione di una prospettiva storica solo “ecclesiastica”
Il Patriarca russo cerca anche di affermare, con questa sua visione, un ruolo specifico della Chiesa e della fede: un ruolo che una visione storica e secolare, troppo laicista o materialista, rischia di trascurare e ridurre: “Questa escursione nella storia – precisa Kirill – è svolta secondo il nostro punto di vista ecclesiastico. Questo punto di vista non è presente nella scienza storica secolare, ma erroneamente, perché è questo approccio alla storia che mette in evidenza la cosa più importante: la dimensione spirituale nella vita delle persone e dello Stato, senza la quale la vittoria, nel venir meno della fede e dello spirito, diventa impossibile. Pertanto, oggi preghiamo il Signore ancora e ancora che Egli pacifici la Russia, fermi i conflitti intestini, in modo che la Santa Russia ritorni ad essere una cosa sola – nel senso che nessuna discordia e divisione tormenti gli eredi di quella Santa Russia unificata. E oggi, mentre ricordiamo la vittoria del nostro popolo nella battaglia di Kulikovo, chiediamo che, senza particolari battaglie e spargimenti di sangue, avvenga una vera vittoria, che ci restituisca l’unità spirituale, la pace, la prosperità e l’amore reciproco. Possa il velo della Regina del Cielo estendersi sulla Sua eredità – sulla Santa Russia. Possano i santi di Dio, ugualmente glorificati e venerati in Russia, Ucraina, Bielorussia e altre parti della Russia storica, pregare oggi per noi, gli indegni, e armarci dei pensieri giusti, delle parole giuste, ma, soprattutto, delle azioni giuste attraverso le quali poter portare pace e prosperità nella terra della Santa Russia. Amen”.
Non va dimenticato, peraltro, che qui siamo molto più sul terreno dell’ideologia che della realtà: non sembra che si possa dire che le chiese della vasta Russia siano tutte strapiene di fedeli: la crisi della fede e il secolarismo, dopo la lunga cappa del comunismo e dopo l’irrompere di nuovi modelli di vita, toccano anche quelle terre: secondo statistiche aggiornate a qualche anno fa, a fronte di un 42,5% di popolazione ortodossa, è elevato nella Federazione Russa il numero sempre in crescita degli agnostici e dei musulmani (questi al 10%) e non mancano neppure animisti, buddisti e seguaci di altre religioni.
Tuttavia proprio questa visione ideologica, che sembra perfino voler ritagliare alla Chiesa una sua funzione specifica e autonoma rispetto ad altre considerazioni della “storiografia secolare”, di fatto impedisce alla Chiesa ortodossa russa una vera autonomia nei confronti degli interessi statuali.
La mancata autonomia della Chiesa russa dipende da due fattori, diversi ma convergenti:
La tradizionale dipendenza delle Chiese ortodosse dallo Stato;
La dipendenza culturale di questa prospettiva dal pensiero slavofilo, che tende ad identificare lo spirito nazionale della Santa Russia con una sola specifica e particolaristica confessione religiosa, identificata come l’unica vera e l’unica possibile, impedendo di pensare il mondo russo come luogo della molteplicità e del pluralismo religioso.
Possiamo allora chiederci: come potrebbe uscire la Chiesa ortodossa russa da questo suo auto-confinamento in un ruolo tutto sommato secondario, che fa della sua fede una religione politica, fonte ideologica del potere putiniano? Come è possibile dunque che una tale ideologia nazional-religiosa possa evolvere in una direzione autonoma e pluralista?
Una prospettiva possibile per ripensare il rapporto tra Oriente e Occidente
La risposta potrebbe non dover necessariamente passare per una presunta occidentalizzazione della Chiesa ortodossa russa, ma piuttosto attraverso l’ascolto, all’interno di quella pur variegata realtà, di quelle voci che già al tempo dell’Impero zarista avevano cercato di offrire alla fede ortodossa un orizzonte cristiano più ampio, aperto alla trascendenza e dunque non immanentista (non hegeliano), ma bensì universalista, antiperfettista e indipendente, capace di valorizzare la pluralità delle Chiese d’Oriente e d’Occidente nella comune tensione ad una più alta e universale comunione tra i cristiani che non debba passare attraverso la violenza degli stati.
Per un’ecclesiologia universalista: Vladimir Solov’ëv
Possono allora soccorrerci alcuni testi del filosofo Vladimir Sergeevič Solov’ëv (Mosca 1853 – Uzkoe 1900), composti tra il 1888 e il 1889, in reazione alle ideologie slavofile diffuse nel tempo[4]. Egli delinea alcuni concetti ecclesiologici fondamentali, che ancora oggi consentirebbero, se pienamente accolti, di pensare un’ortodossia universalista, di pari passo con l’analogo cammino di maturazione ecclesiale percorso nel secolo scorso e nel tempo presente dal magistero della Chiesa cattolica.
Universalismo e molteplicità della Chiesa universale
Scrive Solov’ev nel 1889: “La Chiesa è una e indivisibile, ma questo non le impedisce di contenere delle sfere diverse che non devono essere separate ma che devono comunque essere nettamente distinte, perché nel caso contrario non si riuscirà mai a capire nulla nel passato e nel presente, e neppure si potrà fare qualcosa per l’avvenire religioso dell’umanità”[5]
Trascendentismo e antipefettismo religioso e politico
“La perfezione assoluta – scrive ancora il grande filosofo russo – può appartenere soltanto alla parte superiore della Chiesa, che ha già fatto sua ed ha definitivamente assimilato la pienezza della grazia divina (la Chiesa trionfante o il regno della gloria). Tra questa sfera divina e gli elementi puramente terreni dell’umanità visibile, c’è l’organismo divino-umano della Chiesa, invisibile nella sua potenza mistica e visibile nelle sue manifestazioni attuali, identicamente partecipe della perfezione celeste e delle condizioni dell’esistenza materiale. È la Chiesa propriamente detta ed è appunto di questa Chiesa che si tratta nel nostro caso. Essa non è perfetta in senso assoluto, ma deve possedere tutti i mezzi necessari per progredire con sicurezza verso l’ideale supremo – l’unione perfetta di tutte le creature in Dio – attraverso ostacoli e difficoltà senza numero, fra le lotte, le tentazioni e le cadute umane. La Chiesa non ha quaggiù l’unità perfetta del regno celeste, ma deve tuttavia avere una certa unità reale, un nesso, organico e spirituale nello stesso tempo, che la renda un’istituzione solida, un corpo vivo e un’individualità morale. Pur non abbracciando materialmente ed attualmente tutto il genere umano, essa è tuttavia universale, in quanto non può essere legata esclusivamente ad una nazione o ad un qualsiasi raggruppamento di nazioni, ma deve avere anzi un centro internazionale che le consenta di diffondersi nell’intero universo. La Chiesa terrena, che pure si fonda sulla rivelazione divina ed è custode del deposito della fede, non ha di per ciò stesso la conoscenza assoluta ed immediata di tutte le verità”[6].
Indipendenza della Chiesa
Questa Chiesa, prosegue Solov’ëv, ha tre caratteristiche: è una e universale; è infallibile nelle verità di fede; ma è anche indipendente. Infatti, “se non fosse indipendente non potrebbe svolgere nessuna delle sue funzioni sociali e, divenendo uno strumento delle potenze di questo mondo, verrebbe completamente meno alla sua missione”. Gli slavofili, al contrario, dopo “aver confuso (…) l’aspetto divino e l’aspetto terreno della Chiesa”, finiscono con l’identificare questo ideale con l’attuale Chiesa Orientale, la Chiesa greco-russa che è sotto i nostri occhi”. Così, “pur accettando in linea di principio l’idea di Chiesa Universale, gli slavofili la negano di fatto e riducono l’universalità cristiana ad una Chiesa particolare che, d’altra parte, è ben lungi dal corrispondere all’ideale da loro professato”[7]. E in L’idea russa Solov’ëv aggiunge: “Una Chiesa che faccia parte di uno Stato, cioè di un ‘regno di questo mondo’, ha abdicato alla propria missione e dovrà condividere il destino di tutti i regni di questo mondo”[8].
La visione profetica di Solov’ëv a fine Ottocento sembra così prefigurare l’attuale visione pluralista della Fratelli tutti di papa Francesco. Meritano di essere confrontati due brani che delineano una piena comunione spirituale tra tutte le Chiese, nella memoria del primo millennio unitario e nell’attesa di un compimento finale di cui la storia degli uomini e delle nazioni è sempre solo imperfetta preparazione e attesa.La visione profetica di Solov’ëv a fine Ottocento sembra così prefigurare l’attuale visione pluralista della Fratelli tutti di papa Francesco. Meritano di essere confrontati due brani che delineano una piena comunione spirituale tra tutte le Chiese, nella memoria del primo millennio unitario e nell’attesa di un compimento finale di cui la storia degli uomini e delle nazioni è sempre solo imperfetta preparazione e attesa.
Vladimir Solov’ëv
“L’idea russa” (1888)
“Se (…) nel Nuovo Testamento non ci si occupa più di alcuna nazionalità in particolare e addirittura si proclama espressamente che non dovrà più esistere alcun antagonismo nazionale, non si dovrà allora concludere che nel pensiero primordiale di Dio le nazioni non esistono al di fuori della loro unità organica e vivente, cioè fuori dell’umanità? E se le cose stanno così per Dio, devono stare così anche per le nazioni stesse, nella misura in cui vogliono realizzare la loro idea autentica, che altro non è se non il loro modo di essere nel pensiero di Dio”.
“Il popolo russo è un popolo cristiano e quindi, per conoscere la vera idea russa, non ci si deve chiedere che cosa farà la Russia da sé e per sé, ma che cosa deve fare in nome di quel principio cristiano che essa riconosce e per il bene di quella cristianità universale di cui essa è ritenuta far parte (…). Per adempiere la propria missione, essa deve (…) utilizzare tutte le proprie forze nazionali per realizzare, in pieno accordo con gli altri popoli, quell’unità perfetta ed universale del genere umano, il cui fondamento immutabile ci è dato nella Chiesa di Cristo”[9].
“Per stimolare un rapporto sano tra l’amore alla patria e la partecipazione cordiale all’umanità intera, conviene ricordare che la società mondiale non è il risultato della somma dei vari Paesi, ma piuttosto è la comunione stessa che esiste tra essi, è la reciproca inclusione, precedente rispetto al sorgere di ogni gruppo particolare. In tale intreccio della comunione universale si integra ciascun gruppo umano e lì trova la propria bellezza. Dunque, ogni persona che nasce in un determinato contesto sa di appartenere a una famiglia più grande, senza la quale non è possibile avere una piena comprensione di sé (…).
“Questo approccio, in definitiva, richiede di accettare con gioia che nessun popolo, nessuna cultura o persona può ottenere tutto da sé”[10].
[1] Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1992, pp. 565-568, in particolare n. 2309.
[2] La Guardia varangiana era il reggimento di guerrieri vichinghi scesi dalla Svezia (chiamati Vareghi o Variaghi) che proteggeva l’imperatore di Bisanzio. All’inizio alleati nelle guerre dell’imperatore Basilio II nel tardo X secolo, i Varangi diventarono le spietate e fedeli guardie del corpo imperiali.
[3] Cfr. Timothy Snyder, Ivan Il’in. Il filosofo del neozarismo di Putin, Ed. Italia storica, 2022.
[4] Vladimir Solov’ev, La Russia e la Chiesa universale (cap. 5°, “Gli slavofili russi e le loro idee sulla Chiesa. Osservazioni critiche” saggio del 1889); e L’idea russa (1888), entrambi in Opere, vol. 3°, La Russia e la Chiesa universale e altri scritti. La Casa di Matriona, Milano 1989.
Dall’alto,
dalla punta estrema dell’universo,
passando per il cranio,
e giù,
fino ai talloni,
alla velocità della luce,
e oltre,
attraverso ogni atomo di materia.
Tutto mi chiede salvezza.
Per i vivi e i morti,
salvezza.
Salvezza per Mario, Gianluca, Giorgio, Alessandro e Madonnina.
Per i pazzi, di tutti i tempi,
ingoiati dai manicomi della storia.
Sono le parole della straziante invocazione che Daniele osa lanciare, premuto dall’affanno che gli toglie il respiro, al termine di un funerale abbattutosi come disgrazia imprevista sulla sua vita inquieta: quello per il compagno di stanza precipitato dalla finestra del reparto psichiatrico in cui insieme hanno trascorso una settimana. Lui colpito dall’ingiunzione di un Trattamento Sanitario Obbligatorio, inflitto dopo l’esplosione di aggressività di cui si era reso protagonista tra le pareti di casa, culmine dell’oscuro malessere in cui si trascinava da tempo, tra cadute depressive e dipendenze abbracciate come illusoria via di fuga, capovoltesi però in una morsa diventata sempre più soffocante; la vittima dell’incidente (o del suicidio?) ricoverata, invece, per il suo stato di ossessione maniacale che le impediva il ritorno a una vita normale.
La scena del funerale domina l’ultima puntata della serie televisiva Tutto chiede salvezza, libera rielaborazione del fortunato romanzo di Daniele Mencarelli del 2020, che porta il medesimo titolo. La serie è prodotta da Netflix, ma la scena del funerale si può vedere anche su internet.
Le secche parole balbettate da Daniele, che si possono immaginare ritmate come versi spezzati (sono però disposte in forma di prosa nella pagina di chiusura del romanzo scritto originariamente dall’autore), danno voce accorata a un grido sofferto. Tutta la vicenda dei sette giorni trascorsi nella struttura ospedaliera, sia pure con qualche concessione al gusto drammatico tinto anche di rosa per aumentare sullo schermo la forza di richiamo del racconto, è attraversata dall’implorazione di una spietata domanda. Uomini fragili, esposti nella più nuda essenza interiore all’urto delle circostanze, poco allenati a rivestirsi di solide armature protettive, ci riportano al nucleo più radicale del nostro esistere nel mondo. Emerge la dismisura di una sproporzione che sembra a volte incolmabile: nella tensione di una mancanza che ferisce nervi scoperti, la vertigine di un vuoto in cui si può rischiare di perdersi, che nessuna scelta ragionevole, o il ripiego in alcuna finzione decorosa, sembrano in grado di riempire fino in fondo. L’uomo è qui ributtato nel suo stato di mendicante: è un bisogno che attende di incontrare qualcosa che lo inglobi demolendone le punte dolorose, una sete che non può saziarsi da sé, e per questo ‒ anche senza esserne fino in fondo consapevole, senza dare un nome preciso alla meta ultima della sua attesa ‒ aspira con tutta sé stessa al dono di una salvezza. Ma una salvezza non artificiale, costruita da menti inaffidabili e mani incapaci di autentica presa: una salvezza dall’alto, dall’infinitamente oltre, dall’inesauribile di cui non possiamo essere padroni, che si rovesci su di noi inaspettata, in modi non programmati, magari imprevedibili e alternativi alla logica ordinaria di un progetto di vita (o di una vita spoglia del benché minimo progetto), e perciò una salvezza non in partenza corrotta, grondante di gratuità, piena del senso dell’alterità.
Quando questo grido affiora, stridendo, dagli anfratti più nascosti del cuore, risalendo dall’abisso più profondo della carne dell’esistenza, sana o malandata che sia, tutto intorno si fa silenzio: come nella chiesa del funerale per l’amico, alterato nell’instabile psiche, che ha cessato prematuramente (?) di vivere. L’implorazione del mendicante, spogliato di tutto, è contagiosa: la denuncia spudorata del limite, netta e senza veli, affratella. Ci si sente attirati nell’abbraccio di una compassione che è prima di tutto un condividere insieme, accettandosi nel respiro della misericordia. Sgorgano liberatorie le lacrime del sentirsi punti sul vivo, come succede agli attori di una fiction che è tutt’altro che una finzione evasiva: compagni del cammino di tutti i fratelli uomini che sono in ricerca, che sbagliano e non trovano, si smarriscono e dilapidano. Spartire con loro i doni a nostra volta ricevuti, qualcosa dei tesori verso cui i fatti della vita possono averci precariamente instradato, è la prima forma di una fraternità che accetti la sfida di rendersi sul serio aperta e disponibile, generosa e cordiale fino alla tenerezza dell’amicizia che sa accogliere e perdona.