I contributi, predisposti nella prospettiva di un sapere riflessivo sull’esperienza, offrono un ampio spettro di riflessioni sul senso della sperimentazione e sulle sue prospettive future.
Recentemente la stampa italiana ha evidenziato un intervento del patriarca Kirill dello scorso 21 settembre, che enfatizzava il ruolo della fede ortodossa nel presente conflitto. In particolare colpiva il fatto che egli indicasse la fede come un fattore favorevole al coraggio in battaglia. Peraltro, il tema del rapporto fede-guerra ha attraversato anche la tradizionale dottrina cattolica in rapporto alla “guerra giusta” (ancora presente oggi, con chiare linee di demarcazione, nel Catechismo della Chiesa Cattolica[1]) ed enfatizzato ancora nella Grande Guerra da personalità che ebbero un ruolo importante nella storia: si pensi a don Angelo Roncalli, allora cappellano militare, e a padre Gemelli, che in seguito avrebbe fondato l’Università Cattolica. Tuttavia, mentre già dagli inizi del secolo scorso il magistero cattolico, da Benedetto XV fino a papa Francesco, passando dalla decisiva Pacem in Terris di Giovanni XXIII, ha avuto un’importante evoluzione verso la dissociazione della fede dalla violenza e il rifiuto sempre più marcato della guerra, dobbiamo osservare che un analogo percorso è mancato o perlomeno si è interrotto al livello più alto del magistero della Chiesa ortodossa russa: in essa, almeno nella gerarchia, permane una visione del rapporto stato-nazione-religione che oggi opera nella direzione di uno scontro aperto tra l’Oriente, inteso in senso panrusso, e un Occidente percepito come luogo di scisma e discordia.
Siamo andati allora a cercare sul sito del Patriarcato di Mosca e di tutta la Russia il contenuto di quel discorso di Kirill del 21 settembre 2022, scoprendo che nella stessa giornata egli tenne non uno, ma due discorsi, entrambi riconducibili direttamente o indirettamente alla guerra in atto. Nel primo discorso del mattino, pronunciato a Veliky Novgorod in occasione del 1160° anniversario della «призвание варягов» (“vocazione dei Varangiani”)[2] dell’862 d.C., Kirill cercò di individuare alcuni tratti nazionali che connotano la Russia fin dalle origini e afferma infine due principi, “confermati dalla storia”:
“la realtà sociale è un riflesso dello stato spirituale delle persone e il frutto dei loro sforzi comuni” tanto che “il declino della vita spirituale del popolo portava inevitabilmente alla discordia nella vita dello Stato”;
“La vita e il benessere dello Stato non è responsabilità solo di alcuni leader politici, ma causa comune di tutto il popolo”
Ivan Il’in: da Hegel a Hitler, a Putin
Questi principi indicano uno stretto legame tra la vita spirituale di un popolo e la determinazione come stato. È questa una prospettiva ampiamente percorsa da Hegel e riproposta dal filosofo Ivan Il’in, un controrivoluzionario “russo bianco”, esiliato da Lenin sulla “nave dei filosofi” del 1922 e approdato in Germania, dove divenne sostenitore dell’ascesa di Hitler. In seguito approdò a quello che fu definito come un fascismo russo e cristiano”[3]. Ivan Il’in è considerato da alcuni uno dei principali ispiratori dell’ideologia nazionalista di Putin, che nel 2009 fece consacrare la sua tomba dopo il trasferimento delle sue spoglie in Russia. Kirill lo cita esplicitamente in questi termini: “L’eccezionale pensatore russo Ivan Il’in ha scritto correttamente che una sana statualità è impossibile senza un senso della propria dignità spirituale. La dignità spirituale del nostro popolo è indissolubilmente legata alla fede ortodossa, nella quale gli antenati trassero ispirazione e coraggio per superare le difficoltà e andare avanti nonostante tutte le prove.
La sana statualità deriva certamente dalle peculiarità della mentalità delle persone e serve come una sorta di continuazione di esse”. Si vede bene, qui, come lo spirito del popolo russo è identificato da Kirill fin dalle origini con l’ortodossia russa. Questo spirito fonda uno Stato, la cui forza e unità consiste nella fedeltà all’ortodossia stessa. È una concezione di stato e di nazione indissolubilmente legati e indistinguibili che trae la sua origine nella tradizione slavofila, la quale vedeva nell’Occidente la fonte di tutti gli scismi, di tutti i materialismi e di tutti i cedimenti dello zarismo. Kirill terminò questo suo primo discorso con queste parole: “Il cristianesimo ha plasmato i tratti migliori del nostro carattere nazionale: capacità di reagire e misericordia, amore per la verità e generosità. Con l’adozione della fede ortodossa, la vita spirituale del popolo si è trasformata e si è rinnovata anche la sua autocoscienza di stato, che d’ora in poi ha cercato di organizzare la vita sociale sui valori evangelici. La ricerca di relazioni basate sulla giustizia e sul rispetto reciproco, la volontà di proteggere i deboli e aiutare gli oppressi, la pace e la lealtà alla parola data: questi e altri principi morali hanno ampiamente determinato la politica perseguita dallo stato in più di mille anni di storia russa. La Russia è stata custodita e costruita dalla memoria di Dio. Possano queste parole di Il’in, piene di profonda verità interiore, trovare sempre conferma nella nostra vita e operare a beneficio della Patria. Prego che non dimentichiamo mai le origini spirituali della civiltà russa, che rimaniamo fedeli a Cristo e alla Sua Chiesa, che il Signore,vedendo la nostra forte fede e amore per la Patria terrena, benedica con la pace il popolo russo e lo visiti con molti grazie e doni”.
Con queste premesse, nel pomeriggio il Patriarca affrontò il tema sopra ricordato del rapporto tra fede e coraggio in battaglia in un secondo discorso che tenne presso il Convento Zachatievsky di Mosca in ricordo della battaglia di Kulikovo (8 settembre 1380). Con quella battaglia l’esercito russo, consacrato in quell’occasione alla Santissima Theotokos (“Madre di Dio”), affrontò sulle rive del Don i Tataro-Mongoli e i Polacco-Lituani, determinando la disfatta del nemico ad opera del principe di Mosca, Dimitrij, che da allora prese il nome di Donskoj. Così Kirill: “Perché la Russia è rimasta così determinata? Perché la Russia ha mantenuto la sua lingua, la sua fede, la sua cultura e anche sotto la dominazione straniera, la nostra vita nazionale ha continuato a svilupparsi. Ora chiediamoci: perché? C’è solo una risposta: la fede ortodossa, la Chiesa ortodossa era la custode della vita spirituale delle persone. La gente ha capito che puoi ritirarti da qualsiasi cosa, ma non puoi mai ritirarti dalla fede (…). Naturalmente, tutto questo era connesso con la fede più profonda del nostro popolo. Perché la fede rende una persona molto forte, perché trasferisce la sua coscienza dalla vita quotidiana, dalle preoccupazioni materiali alla cura dell’anima, per l’eternità. E quando questa dimensione legata all’eternità è forte in una persona, allora diventa invincibile, perché smette di aver paura della morte. Vale a dire,la paura della morte spinge un guerriero fuori dal campo di battaglia, spinge i deboli al tradimento e persino a ribellarsi al fratello.
Ma la vera fede distrugge la paura della morte, e quindi tutta la meschinità e il tradimento umani, ed è un grande sostegno per le persone nella costruzione della loro vita comune. Ecco perché la fede è così importante per la creazione della vita, della società e dello stato. E se le persone rifiutano questo potere e fanno affidamento solo sul potere del diritto o sul potere di gruppi e partiti politici, allora questo tipo di unità è sempre temporanea: il gusto per i partiti e gli ideali politici scompare e tutto inizia a sgretolarsi. E quindi è importante che alla base della nostra vita nazionale, come grande priorità, ci sia la fede, e con essa un sistema di valori cristiani che elevino l’anima e conducano una persona che crede con convinzione alla vita eterna, e quindi invincibile.
Lo scandalo dello scisma in Ucraina
È a questo punto che, come d’emblée, il discorso di Kirill, che guardava alle antiche origini della Russia e alle sue storiche battaglie fondative, da celebrativo si fa politico e viene immediatamente rivolto alla presente guerra in Ucraina, le cui radici sono cercate nello scisma ecclesiastico che ha rotto l’unità della nazione ortodossa russa: “Oggi la nostra Patria, la Russia, la Russia storica sta attraversando dure prove. Sappiamo cosa sta succedendo in Ucraina. Sappiamo quale pericolo incombe sul popolo ucraino, che sta cercando di riformattarsi, (переформатировать), per fare uno Stato contrario alla Russia, ostile alla Russia. È molto importante che nei nostri cuori non ci sia la sensazione che vi sia un nemico. Dobbiamo pregare oggi perché il Signore rafforzi i sentimenti fraterni dei popoli della Santa Russia, affinché l’unità della nostra Chiesa diventi sempre più forte, che è davvero una garanzia di pace nelle distese della Russia – ecco perché il crollo del nostro Paese è iniziato con tentativi di rompere la Chiesa, creare scismi e separazioni. Il nemico sapeva che questo punto doveva essere colpito. Ma sebbene abbiamo subito perdite, e uno scisma pericoloso, peccaminoso e sgraziato sia sorto in Ucraina, allo stesso tempo la fede ortodossa è preservata lì, e i nostri fratelli e sorelle, arcipastori e pastori sono uniti e, credo, continuano a pregare con noi attorno al trono del Signore e per la fine della guerra intestina e per il ripristino della pace nelle distese della Russia storica”. Merita di essere osservato con grande attenzione il linguaggio utilizzato da Kirill: in Ucraina, afferma Kirill, non c’è un “nemico”, poiché essi sono chiamati all’unità russo-ortodossa, ma subito dopo tale affermazione è capovolta: in Ucraina vi è un nemico, che ha voluto uno scisma che reca un vulnus all’unità della nazione, e con ciò stesso all’unità del popolo (stato-nazione) russo.
Nella conclusione di questo suo discorso religioso-patriottico, Kirill rivendica due punti fondamentali:
Non c’è unità della nazione senza unità spirituale-religiosa;
La guerra è nata dallo spirito scismatico, e solo nel ritorno dei popoli della Grande Russia storica alla comunione ortodossa sarà possibile una vera pace.
L’illusione di una prospettiva storica solo “ecclesiastica”
Il Patriarca russo cerca anche di affermare, con questa sua visione, un ruolo specifico della Chiesa e della fede: un ruolo che una visione storica e secolare, troppo laicista o materialista, rischia di trascurare e ridurre: “Questa escursione nella storia – precisa Kirill – è svolta secondo il nostro punto di vista ecclesiastico. Questo punto di vista non è presente nella scienza storica secolare, ma erroneamente, perché è questo approccio alla storia che mette in evidenza la cosa più importante: la dimensione spirituale nella vita delle persone e dello Stato, senza la quale la vittoria, nel venir meno della fede e dello spirito, diventa impossibile. Pertanto, oggi preghiamo il Signore ancora e ancora che Egli pacifici la Russia, fermi i conflitti intestini, in modo che la Santa Russia ritorni ad essere una cosa sola – nel senso che nessuna discordia e divisione tormenti gli eredi di quella Santa Russia unificata. E oggi, mentre ricordiamo la vittoria del nostro popolo nella battaglia di Kulikovo, chiediamo che, senza particolari battaglie e spargimenti di sangue, avvenga una vera vittoria, che ci restituisca l’unità spirituale, la pace, la prosperità e l’amore reciproco. Possa il velo della Regina del Cielo estendersi sulla Sua eredità – sulla Santa Russia. Possano i santi di Dio, ugualmente glorificati e venerati in Russia, Ucraina, Bielorussia e altre parti della Russia storica, pregare oggi per noi, gli indegni, e armarci dei pensieri giusti, delle parole giuste, ma, soprattutto, delle azioni giuste attraverso le quali poter portare pace e prosperità nella terra della Santa Russia. Amen”.
Non va dimenticato, peraltro, che qui siamo molto più sul terreno dell’ideologia che della realtà: non sembra che si possa dire che le chiese della vasta Russia siano tutte strapiene di fedeli: la crisi della fede e il secolarismo, dopo la lunga cappa del comunismo e dopo l’irrompere di nuovi modelli di vita, toccano anche quelle terre: secondo statistiche aggiornate a qualche anno fa, a fronte di un 42,5% di popolazione ortodossa, è elevato nella Federazione Russa il numero sempre in crescita degli agnostici e dei musulmani (questi al 10%) e non mancano neppure animisti, buddisti e seguaci di altre religioni.
Tuttavia proprio questa visione ideologica, che sembra perfino voler ritagliare alla Chiesa una sua funzione specifica e autonoma rispetto ad altre considerazioni della “storiografia secolare”, di fatto impedisce alla Chiesa ortodossa russa una vera autonomia nei confronti degli interessi statuali.
La mancata autonomia della Chiesa russa dipende da due fattori, diversi ma convergenti:
La tradizionale dipendenza delle Chiese ortodosse dallo Stato;
La dipendenza culturale di questa prospettiva dal pensiero slavofilo, che tende ad identificare lo spirito nazionale della Santa Russia con una sola specifica e particolaristica confessione religiosa, identificata come l’unica vera e l’unica possibile, impedendo di pensare il mondo russo come luogo della molteplicità e del pluralismo religioso.
Possiamo allora chiederci: come potrebbe uscire la Chiesa ortodossa russa da questo suo auto-confinamento in un ruolo tutto sommato secondario, che fa della sua fede una religione politica, fonte ideologica del potere putiniano? Come è possibile dunque che una tale ideologia nazional-religiosa possa evolvere in una direzione autonoma e pluralista?
Una prospettiva possibile per ripensare il rapporto tra Oriente e Occidente
La risposta potrebbe non dover necessariamente passare per una presunta occidentalizzazione della Chiesa ortodossa russa, ma piuttosto attraverso l’ascolto, all’interno di quella pur variegata realtà, di quelle voci che già al tempo dell’Impero zarista avevano cercato di offrire alla fede ortodossa un orizzonte cristiano più ampio, aperto alla trascendenza e dunque non immanentista (non hegeliano), ma bensì universalista, antiperfettista e indipendente, capace di valorizzare la pluralità delle Chiese d’Oriente e d’Occidente nella comune tensione ad una più alta e universale comunione tra i cristiani che non debba passare attraverso la violenza degli stati.
Per un’ecclesiologia universalista: Vladimir Solov’ëv
Possono allora soccorrerci alcuni testi del filosofo Vladimir Sergeevič Solov’ëv (Mosca 1853 – Uzkoe 1900), composti tra il 1888 e il 1889, in reazione alle ideologie slavofile diffuse nel tempo[4]. Egli delinea alcuni concetti ecclesiologici fondamentali, che ancora oggi consentirebbero, se pienamente accolti, di pensare un’ortodossia universalista, di pari passo con l’analogo cammino di maturazione ecclesiale percorso nel secolo scorso e nel tempo presente dal magistero della Chiesa cattolica.
Universalismo e molteplicità della Chiesa universale
Scrive Solov’ev nel 1889: “La Chiesa è una e indivisibile, ma questo non le impedisce di contenere delle sfere diverse che non devono essere separate ma che devono comunque essere nettamente distinte, perché nel caso contrario non si riuscirà mai a capire nulla nel passato e nel presente, e neppure si potrà fare qualcosa per l’avvenire religioso dell’umanità”[5]
Trascendentismo e antipefettismo religioso e politico
“La perfezione assoluta – scrive ancora il grande filosofo russo – può appartenere soltanto alla parte superiore della Chiesa, che ha già fatto sua ed ha definitivamente assimilato la pienezza della grazia divina (la Chiesa trionfante o il regno della gloria). Tra questa sfera divina e gli elementi puramente terreni dell’umanità visibile, c’è l’organismo divino-umano della Chiesa, invisibile nella sua potenza mistica e visibile nelle sue manifestazioni attuali, identicamente partecipe della perfezione celeste e delle condizioni dell’esistenza materiale. È la Chiesa propriamente detta ed è appunto di questa Chiesa che si tratta nel nostro caso. Essa non è perfetta in senso assoluto, ma deve possedere tutti i mezzi necessari per progredire con sicurezza verso l’ideale supremo – l’unione perfetta di tutte le creature in Dio – attraverso ostacoli e difficoltà senza numero, fra le lotte, le tentazioni e le cadute umane. La Chiesa non ha quaggiù l’unità perfetta del regno celeste, ma deve tuttavia avere una certa unità reale, un nesso, organico e spirituale nello stesso tempo, che la renda un’istituzione solida, un corpo vivo e un’individualità morale. Pur non abbracciando materialmente ed attualmente tutto il genere umano, essa è tuttavia universale, in quanto non può essere legata esclusivamente ad una nazione o ad un qualsiasi raggruppamento di nazioni, ma deve avere anzi un centro internazionale che le consenta di diffondersi nell’intero universo. La Chiesa terrena, che pure si fonda sulla rivelazione divina ed è custode del deposito della fede, non ha di per ciò stesso la conoscenza assoluta ed immediata di tutte le verità”[6].
Indipendenza della Chiesa
Questa Chiesa, prosegue Solov’ëv, ha tre caratteristiche: è una e universale; è infallibile nelle verità di fede; ma è anche indipendente. Infatti, “se non fosse indipendente non potrebbe svolgere nessuna delle sue funzioni sociali e, divenendo uno strumento delle potenze di questo mondo, verrebbe completamente meno alla sua missione”. Gli slavofili, al contrario, dopo “aver confuso (…) l’aspetto divino e l’aspetto terreno della Chiesa”, finiscono con l’identificare questo ideale con l’attuale Chiesa Orientale, la Chiesa greco-russa che è sotto i nostri occhi”. Così, “pur accettando in linea di principio l’idea di Chiesa Universale, gli slavofili la negano di fatto e riducono l’universalità cristiana ad una Chiesa particolare che, d’altra parte, è ben lungi dal corrispondere all’ideale da loro professato”[7]. E in L’idea russa Solov’ëv aggiunge: “Una Chiesa che faccia parte di uno Stato, cioè di un ‘regno di questo mondo’, ha abdicato alla propria missione e dovrà condividere il destino di tutti i regni di questo mondo”[8].
La visione profetica di Solov’ëv a fine Ottocento sembra così prefigurare l’attuale visione pluralista della Fratelli tutti di papa Francesco. Meritano di essere confrontati due brani che delineano una piena comunione spirituale tra tutte le Chiese, nella memoria del primo millennio unitario e nell’attesa di un compimento finale di cui la storia degli uomini e delle nazioni è sempre solo imperfetta preparazione e attesa.La visione profetica di Solov’ëv a fine Ottocento sembra così prefigurare l’attuale visione pluralista della Fratelli tutti di papa Francesco. Meritano di essere confrontati due brani che delineano una piena comunione spirituale tra tutte le Chiese, nella memoria del primo millennio unitario e nell’attesa di un compimento finale di cui la storia degli uomini e delle nazioni è sempre solo imperfetta preparazione e attesa.
Vladimir Solov’ëv
“L’idea russa” (1888)
“Se (…) nel Nuovo Testamento non ci si occupa più di alcuna nazionalità in particolare e addirittura si proclama espressamente che non dovrà più esistere alcun antagonismo nazionale, non si dovrà allora concludere che nel pensiero primordiale di Dio le nazioni non esistono al di fuori della loro unità organica e vivente, cioè fuori dell’umanità? E se le cose stanno così per Dio, devono stare così anche per le nazioni stesse, nella misura in cui vogliono realizzare la loro idea autentica, che altro non è se non il loro modo di essere nel pensiero di Dio”.
“Il popolo russo è un popolo cristiano e quindi, per conoscere la vera idea russa, non ci si deve chiedere che cosa farà la Russia da sé e per sé, ma che cosa deve fare in nome di quel principio cristiano che essa riconosce e per il bene di quella cristianità universale di cui essa è ritenuta far parte (…). Per adempiere la propria missione, essa deve (…) utilizzare tutte le proprie forze nazionali per realizzare, in pieno accordo con gli altri popoli, quell’unità perfetta ed universale del genere umano, il cui fondamento immutabile ci è dato nella Chiesa di Cristo”[9].
“Per stimolare un rapporto sano tra l’amore alla patria e la partecipazione cordiale all’umanità intera, conviene ricordare che la società mondiale non è il risultato della somma dei vari Paesi, ma piuttosto è la comunione stessa che esiste tra essi, è la reciproca inclusione, precedente rispetto al sorgere di ogni gruppo particolare. In tale intreccio della comunione universale si integra ciascun gruppo umano e lì trova la propria bellezza. Dunque, ogni persona che nasce in un determinato contesto sa di appartenere a una famiglia più grande, senza la quale non è possibile avere una piena comprensione di sé (…).
“Questo approccio, in definitiva, richiede di accettare con gioia che nessun popolo, nessuna cultura o persona può ottenere tutto da sé”[10].
[1] Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1992, pp. 565-568, in particolare n. 2309.
[2] La Guardia varangiana era il reggimento di guerrieri vichinghi scesi dalla Svezia (chiamati Vareghi o Variaghi) che proteggeva l’imperatore di Bisanzio. All’inizio alleati nelle guerre dell’imperatore Basilio II nel tardo X secolo, i Varangi diventarono le spietate e fedeli guardie del corpo imperiali.
[3] Cfr. Timothy Snyder, Ivan Il’in. Il filosofo del neozarismo di Putin, Ed. Italia storica, 2022.
[4] Vladimir Solov’ev, La Russia e la Chiesa universale (cap. 5°, “Gli slavofili russi e le loro idee sulla Chiesa. Osservazioni critiche” saggio del 1889); e L’idea russa (1888), entrambi in Opere, vol. 3°, La Russia e la Chiesa universale e altri scritti. La Casa di Matriona, Milano 1989.
Dall’alto,
dalla punta estrema dell’universo,
passando per il cranio,
e giù,
fino ai talloni,
alla velocità della luce,
e oltre,
attraverso ogni atomo di materia.
Tutto mi chiede salvezza.
Per i vivi e i morti,
salvezza.
Salvezza per Mario, Gianluca, Giorgio, Alessandro e Madonnina.
Per i pazzi, di tutti i tempi,
ingoiati dai manicomi della storia.
Sono le parole della straziante invocazione che Daniele osa lanciare, premuto dall’affanno che gli toglie il respiro, al termine di un funerale abbattutosi come disgrazia imprevista sulla sua vita inquieta: quello per il compagno di stanza precipitato dalla finestra del reparto psichiatrico in cui insieme hanno trascorso una settimana. Lui colpito dall’ingiunzione di un Trattamento Sanitario Obbligatorio, inflitto dopo l’esplosione di aggressività di cui si era reso protagonista tra le pareti di casa, culmine dell’oscuro malessere in cui si trascinava da tempo, tra cadute depressive e dipendenze abbracciate come illusoria via di fuga, capovoltesi però in una morsa diventata sempre più soffocante; la vittima dell’incidente (o del suicidio?) ricoverata, invece, per il suo stato di ossessione maniacale che le impediva il ritorno a una vita normale.
La scena del funerale domina l’ultima puntata della serie televisiva Tutto chiede salvezza, libera rielaborazione del fortunato romanzo di Daniele Mencarelli del 2020, che porta il medesimo titolo. La serie è prodotta da Netflix, ma la scena del funerale si può vedere anche su internet.
Le secche parole balbettate da Daniele, che si possono immaginare ritmate come versi spezzati (sono però disposte in forma di prosa nella pagina di chiusura del romanzo scritto originariamente dall’autore), danno voce accorata a un grido sofferto. Tutta la vicenda dei sette giorni trascorsi nella struttura ospedaliera, sia pure con qualche concessione al gusto drammatico tinto anche di rosa per aumentare sullo schermo la forza di richiamo del racconto, è attraversata dall’implorazione di una spietata domanda. Uomini fragili, esposti nella più nuda essenza interiore all’urto delle circostanze, poco allenati a rivestirsi di solide armature protettive, ci riportano al nucleo più radicale del nostro esistere nel mondo. Emerge la dismisura di una sproporzione che sembra a volte incolmabile: nella tensione di una mancanza che ferisce nervi scoperti, la vertigine di un vuoto in cui si può rischiare di perdersi, che nessuna scelta ragionevole, o il ripiego in alcuna finzione decorosa, sembrano in grado di riempire fino in fondo. L’uomo è qui ributtato nel suo stato di mendicante: è un bisogno che attende di incontrare qualcosa che lo inglobi demolendone le punte dolorose, una sete che non può saziarsi da sé, e per questo ‒ anche senza esserne fino in fondo consapevole, senza dare un nome preciso alla meta ultima della sua attesa ‒ aspira con tutta sé stessa al dono di una salvezza. Ma una salvezza non artificiale, costruita da menti inaffidabili e mani incapaci di autentica presa: una salvezza dall’alto, dall’infinitamente oltre, dall’inesauribile di cui non possiamo essere padroni, che si rovesci su di noi inaspettata, in modi non programmati, magari imprevedibili e alternativi alla logica ordinaria di un progetto di vita (o di una vita spoglia del benché minimo progetto), e perciò una salvezza non in partenza corrotta, grondante di gratuità, piena del senso dell’alterità.
Quando questo grido affiora, stridendo, dagli anfratti più nascosti del cuore, risalendo dall’abisso più profondo della carne dell’esistenza, sana o malandata che sia, tutto intorno si fa silenzio: come nella chiesa del funerale per l’amico, alterato nell’instabile psiche, che ha cessato prematuramente (?) di vivere. L’implorazione del mendicante, spogliato di tutto, è contagiosa: la denuncia spudorata del limite, netta e senza veli, affratella. Ci si sente attirati nell’abbraccio di una compassione che è prima di tutto un condividere insieme, accettandosi nel respiro della misericordia. Sgorgano liberatorie le lacrime del sentirsi punti sul vivo, come succede agli attori di una fiction che è tutt’altro che una finzione evasiva: compagni del cammino di tutti i fratelli uomini che sono in ricerca, che sbagliano e non trovano, si smarriscono e dilapidano. Spartire con loro i doni a nostra volta ricevuti, qualcosa dei tesori verso cui i fatti della vita possono averci precariamente instradato, è la prima forma di una fraternità che accetti la sfida di rendersi sul serio aperta e disponibile, generosa e cordiale fino alla tenerezza dell’amicizia che sa accogliere e perdona.
Nel nostro mondo sempre più tecnologizzato ed in preda a una drammatica crisi dell’umano c’è ancora spazio per la poesia? LineaTemponel numero 31, intitolatoL’ampiezza del cielo (F. Loi). Uno sguardo sulla poesia contemporanea ha provato a verificare se e quanto il lavoro dei poeti sulla parola possa tornare ad essere attuale e ad incidere sulla vita. Sono emerse così una serie di testimonianze di poeti, in molti casi legati da rapporti di “filiazione” con il grande Franco Loi, che documentano come negli ambiti più diversi, dal mondo della scuola al carcere, la poesia, praticata come spazio di apertura al lavoro sul proprio io, costituisca uno spalancamento di orizzonte che mette in grado di sfidare il mal di vivere contemporaneo.
Massimiliano Mandorlo – Premessa a L’ampiezza del cielo. Uno sguardo sulla poesia contemporanea Lo spazio autentico della poesia torna attuale nella vita e nel mondo educativo come sfida alla crisi dell’umano
Nicoletta Stefanelli – Un guizzo di luce nella scuola Il racconto dell’esperienza dell’insegnamento della poesia a scuola con il Premio Galdus
Rudy Toffanetti – I bambini non giocano più in strada Il rapporto con un maestro educa al vero senso della comunicazione della poesia in tempo di social
Davide Ferrari – La poesia … neanche a me piace La ricerca dell’autentico fermento della lingua vivente nell’esperienza di lavoro con la parola in carcere
Per i Percorsi culturali e didattici viene presentato il Pirandello “cantore della tenerezza”. Questo aspetto finora poco conosciuto del grande autore emerge con nettezza dall’analisi di tre novelle.
In Recensionied eventi una recensione dell’ultimo libro di Susanna Tamaro, carico di passione per l’umano e ricco di spunti per i giovani, la presentazione dell’archivio e della biblioteca di Eugenio Corti, ora a disposizione degli studiosi presso l’Ambrosiana e l’invito alla lettura di un bel libro di poesia.
La figura di Dante vista con gli occhi di Giovanni Boccaccio
All’età di 84 anni, Pupi Avati ha deciso di mettersi alla prova con un compito “da far tremar le vene e i polsi”, (la citazione l’ha fatta lui stesso in una delle presentazioni del film). Affrontare la vita di Dante facendone un prodotto didascalico o scadere nell’enfatico sarebbe stato molto facile, ma il regista bolognese dalla lunga carriera si è saputo mantenere su un percorso lineare e sobrio che, pur con qualche cedimento ai luoghi comuni sul Medio Evo e qualche trascuratezza narrativa, riesce egregiamente a farci comprendere lo spirito del tempo in cui la storia si svolge.
Il regista utilizza come traccia un romanzo da lui stesso scritto, il recente L’alta fantasia. Il viaggio di Boccaccio alla scoperta di Dante (Solferino). Il racconto è una sorta di diario dello scrittore Giovanni Boccaccio (Sergio Castellitto), incaricato nel 1350 dai Capitani di Orsanmichele – la confraternita che radunava le corporazioni fiorentine – di raggiungere Ravenna e consegnare a suor Beatrice (Valeria D’Obici), figlia di Dante, la somma di dieci fiorini d’oro, a titolo di risarcimento per i torti subiti dal padre: la condanna, la confisca di tutti i beni, la minaccia del rogo se si fosse ripresentato a Firenze, l’esilio che lo vide ramingo per le signorie d’Italia.
Il compito che Boccaccio si assume, e il viaggio che ne consegue, anche se per un uomo nemmeno quarantenne, sono per lui quasi il compito della vita (e come ogni uomo coscienzioso del suo tempo, prima di avviarsi anche solo da Firenze a Ravenna, fa testamento).
Il profondo legame che Boccaccio sente nei confronti di Dante si riflette nelle aspettative per l’incontro con l’ultima testimone della vita del Poeta, figura venerata come un padre che non si è mai conosciuto di persona, ma che risulta sempre presente. Il viaggio, svolto in compagnia del fido Donato (Enrico Lo Verso), è un percorso che gli permette di imbattersi in chi diede riparo e accoglienza a Dante mentre era in fuga. Boccaccio sosta negli stessi paesi, nei castelli, nei conventi; ad ogni sosta il regista attraverso dei flashback ricostruisce la vita di Dante: la giovinezza (qui Dante è interpretato da Alessandro Sperduti), l’incontro con Beatrice (Carlotta Gamba) e il suo innamoramento, fino alla morte di lei. Poi l’amicizia con Guido Cavalcanti, l’accettazione di incarichi pubblici per poter mantenere la famiglia, l’impopolare decisione di bandire da Firenze anche l’amico Guido per scongiurare altre battaglie, scelta che gli attirò l’avversione di Papa Bonifacio VIII e dei governanti della città.
La scelta degli interpreti è quanto mai centrata: Castellitto incarna un Boccaccio conscio dell’importante incarico “civile”, ma al tempo stesso timoroso ed emozionatissimo ad ogni incontro che gli permetta di saperne un po’ di più su quell’uomo di cui egli stesso continua a ripetere “mi è padre”. Enrico Lo Verso è una spalla discreta ma precisa, come pure gli altri interpreti di tutti gli incontri (ed è bello che di Paolo Graziosi e Gianni Cavina questo resti l’ultimo ricordo al cinema, essendo scomparsi poco dopo le riprese). Qualche perplessità la suscita la scelta di attrici chiamate a impersonare donne anziane ma che mostrano evidentemente sul viso l’opera del chirurgo plastico, che genera un’impressione veramente stridente.
Avati ripropone nel film un’immagine del Medioevo già esplorata in altri suoi film come Magnificat o I cavalieri che fecero l’impresa, rappresentando un mondo con interni bui e scarni, nel quale il regista alterna scene oniriche (come quelle che riguardano il rapporto di Beatrice con Dante) e invenzioni volutamente inquietanti, come la bambola crepata che fu di Beatrice e che Boccaccio compra per la figlia. L’impianto, a volte un po’ troppo televisivo (giustificato probabilmente dalla futura destinazione dell’opera) si riscatta però in un finale realmente poetico e anche visivamente commovente.
Io penso che non basti una accurata ricostruzione storica per considerare un film ben riuscito.
La scelta attenta dei luoghi, dall’interno di una pieve affrescata alle stradine tortuose di un borgo fino agli interni ricostruiti in modo verosimile grazie alle testimonianze pittoriche, permette allo spettatore di immergersi veramente nella quotidianità di Dante, per non parlare degli abiti, delle armature, dei finimenti dei cavalli, del cibo di cui si nutrono i personaggi. Tutto ciò è molto accurato e va apprezzato insieme alla bravura di alcuni attori, ma, come dicevo, non basta.
Qual è lo scopo del film? Farci conoscere qualcosa di Dante, suppongo, visto anche il titolo. E che cosa scopro di Dante grazie al film? In prima battuta direi che scopro il grande amore di Boccaccio per Dante, un amore che lo porta, nonostante le sue precarie condizioni di salute, ad accettare un impegnativo incarico da parte delle autorità cittadine: andare da Firenze a Ravenna per consegnare alla figlia di Dante, monaca in quella città, una consistente somma di denaro, a tardivo riconoscimento del merito del padre. Il viaggio è faticoso, ci si deve inerpicare con un carretto su e giù per l’Appennino lungo strade appena tracciate e confidare nella frugale ospitalità di qualche convento. Boccaccio gioisce nel recuperare le tracce del passaggio di Dante esule e versa lacrime di sincera commozione su un breve autografo conservato da un uomo che ancora si ricorda del fiorentino in fuga, come pure piange a dirotto nel colloquio finale rievocando il padre con la di lui figlia.
Ma che cosa scopro di Dante? Quello che Pupi Avati ha scelto di mostrare nel film, (e sicuramente non è poco!) è un uomo innamorato della poesia e di Beatrice (ma non è nulla di più di una cotta adolescenziale!), immerso in un’epoca violenta e fratricida, alle prese con i debiti per cui l’elezione a priore potrebbe portare un po’ di sollievo; un idealista che spera, con il viaggio dal papa, di riportare la pace a Firenze, poi un uomo ramingo e solo nelle asprezze dell’esilio. Come molti altri a quel tempo.
Che cosa nel film mi aiuta a capire perché Dante è Dante e meriti ancora la nostra attenzione a settecento anni dalla sua morte, al di là degli ossequi di rito? Quello che noto di più è una mancanza, c’è infatti un aspetto che viene completamente ignorato dal film, e che secondo me non si può proprio fare a meno di tralasciare se si vuole veramente rendergli giustizia, e cioè il fatto che Dante fosse indubitabilmente un uomo eccezionale. Non avrebbe potuto scrivere la Commedia se non fosse stato un grande poeta e, soprattutto, un uomo di fede. Ebbene, nulla nel film fa anche solo sospettare che lo fosse, tutt’al più troviamo un generico misticismo, visto che a lui morente viene messo in bocca un verso del 33° canto del Paradiso: «al fine di tutti i disii mi appropinquava» oppure il fatto che la figlia monaca, finalmente raggiunta da Boccaccio a Ravenna, chiude il film con la battuta: «Lui conosceva il vero nome delle stelle», una bella epigrafe, un pochino romantica.Non è certo moralismo chiedersi che cosa resta se a Dantetogliamo la sua grandezza, come poeta e come credente, e ci limitiamo a prendere atto di tutte le esperienze drammatiche che la sorte gli ha riservato. Ma il senso di tutte quelle esperienze ci sfugge.
Se ancora oggi parliamo di Dante non è certo perché era un uomo del suo tempo (e come avrebbe potuto non esserlo?) ma proprio per quel tratto di eccezionalità, di grazia, di cui però nel film non si sospetta neppure l’esistenza.
Non sono un regista, quindi non so dire come sia possibile rendere in immagini e con una sceneggiatura determinati aspetti della personalità di un personaggio, in particolare quelli più profondi e misteriosi; forse la questione è proprio qui, si può ‘dire’ l’eccezionalità di una persona con il linguaggio del cinema?
Pupi Avati ha fatto una scelta precisa, ricostruisce intorno a Dante ambienti e situazioni in modo filologicamente ineccepibile e lascia sullo sfondo la questione invitandoci a fidarci delle lacrime di un Boccaccio-Castellitto che inevitabilmente ci muove a commozione. A noi spettatori decidere se ci basta.
Dante per Pupi Avati? “Quando l’espressione più pura del talento si tira fuori nel dolore!”
Pupi Avati con questo film ha ricostruito innanzitutto storicamente l’epoca del Due/Trecento in cui è vissuto l’Alighieri e lo fa in modo magistrale . Pochi frame e si viene catapultati nel “presente” di Dante (1265-1321) e Boccaccio. Già solo per questo, il film avrà un impatto positivo nelle scuole e tra gli studenti. Ma sì, perché questa, la ricostruzione storica, è cosa formidabile quando è fatta bene: davvero sublime “arte” è questa del fare cinema! Se non si tiene conto di questa evidenza si rischia nel giudizio su questo film di scivolare in astratte disquisizioni dantesche, e si finisce col dire soltanto quello che il film “non dice”, senza accorgersi invece di quello che il film dice e Avati qui ne dice di cose e belle pure e potenti! Poi è tutto vero quel che lo stesso regista sostiene nelle sue interviste, rilasciate ai vari “media”: si è tenuto lontano dalla Divina Commedia in quanto allegoria, perché ha voluto avvicinare Dante al nostro presente come uomo e come poeta e… c’è riuscito!! Era difficilissimo affrontare un film sul Nostro e lui l’ha saputo fare, percorrendo la sola strada percorribile per farlo cioè non “produrre” un film scontato e pacchiano: ha imboccato la strada di tutti quei bravi insegnanti ( cioè quelli che sanno suscitare nei ragazzi ammirazione passione e curiosità negli studi e per la cultura ) che per far incontrare i ragazzi con l’autore (e la sua opera) sono loro stessi per primi a fare l’incontro personale con l’ autore e la sua opera. Avati è un genio. Ad esempio, ha fatto “duettare” nella recitazione, con sobrietà per nulla scolastica quel capolavoro della Vita Nova, che è la poesia “Tanto gentile e tanto onesta pare”, tenendo sulla scena, visivamente alla distanza, Dante e Beatrice in un gioco di sorrisi e sguardi, che veniva esaltata ora dai versi ora dalla bravura dei due attori (Carlotta Gamba e Alessandro Sperduti) totalmente calati nei panni dei loro personaggi. Il film rispetta il genere propriamente biografico, ma in controluce vi si può leggere l’ispirazione- proprio nella narrazione della vita di Dante – che è alla base delle stesse tre cantiche della Commedia ( la dis/peranza ovvero la disperazione come luogo dell’Inferno; l’espiazione ovvero la speranza – certezza che è il purgatorio; e il compimento della speranza che è l’incontro con l’oggetto proprio del desiderio dell’uomo, che è Dio, ovvero il fine di tutti i “desiri”). Quante cose suggerisce questo film!! Non ultima quando si parla degli odii di cui vivevano i fiorentini, e non solo loro, al tempo delle lotta tra guelfi e ghibellini e che oggi prende mille forme sia nella politica, quando si diventa manichei e l’Altro diventa “il” nemico ( papa Francesco parlerebbe di cainismo!) o in tema di religione, quando ci si erge a “cristianisti” ovvero a inguaribili moralisti, per cui più importante dell’incontro vivo con una Presenza è discriminante la guerra senza quartiere alla modernità atea e immorale e alla depravazione di cui si tinge la secolarizzazione. In entrambi i casi-politica o religione– come nelle battaglie di Campaldino o di Montaperti o come nella “sacrilega e diabolica” guerra in Ucraina – in gioco c’è la folle alternativa : “o noi o loro!”. Dante ha creduto che si potesse andare “oltre e attraverso” l’assurdità di tale contrapposizione con il dare carne alla pax di Cristo, scommettendo tutto sulla bellezza e la poesia! Nessuna critica dunque al film?… certo che sì, di critiche ce ne sono ma non per metterlo sotto processo – sarebbe ingeneroso – per tutte quelle cose che Avati non dice. E non dice perché Egli ha voluto restituirci il Dante uomo, un Dante che si è consumato negli ultimi 20 anni di vita nel dolore e nell’amarezza, esiliato dalla sua patria, per motivi politici (per mano dei guelfi Neri e la complicità di Bonifacio VIII), un provvedimento che prevedeva pure la condanna a morte, ancorché profondamente ingiusto. Un Dante tirato giù dal piedistallo cui gli pseudo – dantisti lo avevano messo- altra forma di esilio, questa? – svestendolo della sua umanità, facendone un mito lontano dalla realtà e dal popolo di cui resta addirittura “padre per sempre” nella lingua! E comunque sollevare ciò che il film non dice non sarebbe onesto, ché la provocazione positiva è stare a quello che il film invece dice e vuol dire … a noi, e non divagare! Attori da Castellitto a Gamba a Sperduti tutti ben compresi nel loro ruolo e quindi tutti credibili, Sergio Castellitto su tutti … che in realtà è Pupi Avati sotto mentite spoglie: infatti la sceneggiatura è sua. Il film dura 94 minuti ma volano via e la colonna sonora del duo Gregoretti – De Rosa è in sintonia con le immagini e le loro “aure” vagheggiano in modo superbo il Medioevo.
A distanza di due anni dall’introduzione della nuova Educazione civica nella scuola italiana LineaTemponel numero 30 si è proposta di verificare la portata culturale ed educativa del nuovo insegnamento. Col dossier Insegnare Educazione civica: una possibile svolta per la scuola italianadocumentiamo come questa innovazione, se sviluppata con percorsi in forma esperienziale fondati sulla centralità della relazione educativa, può diventare “linfa vitale” per il rinnovamento della scuola. Delineano questa prospettiva, che permette una critica efficace all’individualismo contemporaneo, i diversi contributi offerti, che riflettono da varie angolazioni sui nodi fondamentali di questo insegnamento.
Per i Percorsi culturali e didattici viene focalizzata una prospettiva di insegnamento di storia per le scuole medie del gruppo di docenti che propone il progetto Educare insegnando
Nei Segmenti appaiono: un articolo che costituisce un controcanto all’immaginario culturale dell’ideologia del Russkij Mir; un breve profilo di Armida Barelli, grande protagonista della storia italiana del Novecento finora poco conosciuta; la ricostruzione della storia di padre Popieluszko e della sua opera di resistenza nella Polonia comunista e una riflessione sulla Paternità e il desiderio, che mostra come amare le storture della vita.
Primo Piano è dedicato a Rolando Rivi e l’imprevedibilità del bene, con una serie di interventi connessi alla pubblicazione del libro 13 aprile 1945
Quando noi abbiamo conosciuto Kapi e Mamadou non c’era in Italia attorno a loro e a tutti quelli come loro quel moto universale di solidarietà che si è espresso nei confronti dei profughi di guerra ucraini. C’era un clima fortemente polarizzato, condizionato ideologicamente.
Eppure le guerre africane o quelle medio orientali non sono state (e non sono) meno terribili del conflitto in atto in Ucraina. I milioni di profughi di queste guerre si sono riversati nei paesi limitrofi, come sta accadendo ora in Europa con gli sfollati ucraini. E di fronte a queste tragedie non è scattato un moto di solidarietà collettiva, ma solo paura e recriminazione per l’arrivo di quei pochi in Europa.
Lo stesso slancio umanitario verso il popolo afgano dopo l’evacuazione dell’esercito americano si era già del tutto spento quando le truppe russe hanno iniziato ad invadere l’Ucraina e gli stessi afgani avevano già da tempo iniziato a percorrere la rotta balcanica.
Queste considerazioni ci hanno aiutato a capire che ha senso e può essere utile raccontare oggi la nostra storia di accoglienza, e quindi di aiuto e di accompagnamento. Anche se particolare e diversa da quelle che prenderanno forma con donne e i bambini ucraini, in essa è documentato come nella nostra vita personale e famigliare si sia introdotto un cambiamento, inaspettato, ma sostanziale e durevole, che ci ha aperto nuove prospettive.
L’incontro con Kapi e Mamadou ha rappresentato per noi un nuovo inizio e quando qualcosa di nuovo accade c’è un prima e un dopo. A fronte di una accoglienza più o meno lunga, ma sempre temporanea, almeno nelle modalità iniziali in cui si manifesta, c’è un “per sempre”. Nulla si perde.
La storia personale di Kapi e Mamadou e le vicende che hanno contrassegnato tragicamente la loro migrazione sono simili a quelle di tanti altri, come le problematiche e le difficoltà che hanno incontrato in Italia. Ma Kapi e Mamadou non sono “migranti”. Sono Kapi e Mamadou: unici al mondo.
Il nostro impegno non è iniziato per una motivazione sociale o civile, anche se la nostra azione ha indubbiamente una ricaduta in questo senso. Noi abbiamo deciso di accompagnare due persone conosciute ad un certo punto del loro percorso, ascoltando e cercando di venire incontro alle loro necessità, anche particolari e concrete, grazie all’aiuto della rete delle nostre amicizie. Man mano che i problemi emergevano e si rivelava la complessità della loro situazione, è stato indispensabile prendere contatto con gli operatori e le strutture preposte all’accoglienza.
Né all’inizio né in seguito abbiamo agito solo seguendo un impulso emotivo, ma per un desiderio consapevole di condivisione della loro vita e per amore al loro “destino”. Abbiamo agito per un senso di responsabilità.
È scaturita così una storia che ha coinvolto tanti altri, che, grazie al nostro gesto di accoglienza, sono stati aiutati ad incontrare a loro volta, in modo diretto e personale, una realtà vista fino a quel momento da lontano e da cui forse anche si tenevano lontano.
Per chi desiderasse conoscere la nostra storia è disponibile la dispensa “L’inaspettata convenienza della famiglia. L’esperienza di accoglienza familiare di Kapi e Mamadou” edita dalla Associazione Famiglie per l’Accoglienza sede regionale Emilia Romagna, che è scaricabile QUI.
Per accostarsi all’opera dell’attuale abate generale dei cistercensi, padre Mauro Giuseppe Lepori, una via privilegiata può essere l’agile volume che raccoglie le lezioni da lui presentate nel corso dei Meeting di Rimini dal 2003 allo scorso 2015, insieme a due conferenze del 2008 e del 2013. La pubblicazione aveva visto la luce per i tipi di Cantagalli nel 2016 con un titolo a prima vista destabilizzante, o forse in realtà, potremmo meglio dire, sanamente provocatorio (Si vive solo per morire?). Lo scopo era anche quello di inaugurare una nuova collana di “Classici”, cioè di testi concepiti come riferimenti sostanziosi per confrontarsi con le domande fondamentali dell’esistenza: una sfida sempre aperta, dove contano non solo la radicalità degli interrogativi, ma anche la ricchezza dei tentativi di risposta che i grandi autori di un passato lontano così come i maestri del nostro presente possono offrire in termini non tanto di proposta intellettuale, quanto piuttosto, in primo luogo, di testimonianza vissuta (al libro di Lepori hanno fatto seguito Péguy, Paolo VI, Clemente Rebora). “A caccia di Dio” era l’insegna sotto cui si disponeva l’iniziativa editoriale. C’è però da dire che la formula non intendeva rinviare a una esplorazione confinata nel territorio di una riserva per cultori superaddestrati del “religioso”. Dio qui era inteso come il vertice di ogni anelito dell’uomo onesto con sé stesso, che non vuole abdicare alla grandezza della sua statura e insegue quell’Oltre che sta al di là di ogni manipolazione addomesticata delle sue istanze di bene, di verità e di bellezza. Lepori, nel volume che vogliamo commentare, si serve delle metafore letterarie, come è abitualmente nel suo stile, per comunicare la suggestione di ciò che più gli preme. In questo caso prende le mosse da Victor Hugo. Nei Miserabili, il fiume di perdono che si riversa sull’ex forzato Jean Valjean dopo l’incontro travolgente con il vescovo che lo riscatta dall’accusa di un furto spregevole sembra subito bloccato dal nuovo cedimento all’impulso accaparratore. Ne fanno le spese i pochi soldi raggranellati da un bambino mendicante, vergognosamente depredato da chi si stava incamminando con la borsa piena di argenteria verso il suo straordinario approdo di convertito al primato della generosità eroica. Il gesto rapace della rapina che vuole strappare un guadagno per il proprio esclusivo possesso, riflettendo nella lunga corsa del tempo la voracità dei progenitori tentati dal Serpente nel Paradiso delle delizie, è lo stesso di don Rodrigo che, alla fine dei Promessi sposi, stringe le mani ad artiglio sul cuore devastato dal respiro affannoso dell’agonia, in contrapposizione a quelle di padre Cristoforo che restano aperte fino all’ultimo per donare, per benedire e spezzare il pane eucaristico.
La dialettica tra la bramosia della conquista da afferrare con le dita adunche e la “carità oblativa” del dono restituito, a piene mani, da chi a sua volta è stato l’oggetto di un amore che lo fa rinascere a nuova vita percorre molte delle meditazioni di p. Lepori. Il gioco di queste ambivalenze rimanda a uno sguardo spregiudicatamente realistico gettato sul mistero di tutto ciò che esiste. Al principio sorgivo dell’essere, dunque anche di quell’essere minuscolo e pieno di bisogno che è l’io di ciascuno di noi, non si può immaginare altro che il dinamismo della pura gratuità che crea, facendo passare dal non essere all’essere limitato e dipendente della natura creata. Noi, il mondo e la storia siamo l’espansione mai esaurita di questo ardore che trabocca continuamente fuori di sé, generando l’altro da stringere in un abbraccio di comunione. In cima alla scala delle creature, nel codice genetico dell’identità umana resta impressa l’orma indelebile di una “somiglianza” con il divino che si intreccia con il dono privilegiato della libertà: perché ciò che è plurale non si può fondere nell’unità se non volendolo liberamente. Solo che la libertà l’uomo l’ha esercitata degradandola a volontà di autonomia gelosa, nella lacerazione della disobbedienza che ha rotto il legame originario con il Principio. È andata in frantumi l’alleanza fiduciosa con il Tutto divorata dal tarlo del dubbio nei confronti della verità trasparente della realtà così come si pone. Ma la gratuità totale, infinita, libera dalle catene dei doveri di riconoscenza e senza alcun obbligo di ritorno, la carità sfrenata del Dio-Trinità che fa sorgere le cose dal niente e accompagna la vita dell’uomo in ogni sussulto del suo respiro non poteva rinunciare a colmare lo spazio di amore lasciato aperto per ogni uomo vivente: anche nella tragedia scandalosa del rifiuto che chiude il dialogo e si piega ad adorare la divinità irrisoria di idoli incapaci di mantenersi all’altezza delle loro promesse. Che la natura profonda del Divino sia la misericordia si vede nella rivelazione che la manifesta pienamente, miracolosamente, attraverso l’incarnazione del Figlio: Lui che accetta di esporsi alla cattiveria rapinatrice dell’uomo fino alla sua espropriazione totale, fino alla passione e alla morte di croce. La croce di Cristo è l’altro grande centro della riflessione dell’abate cistercense sul dramma umano in cui siamo coinvolti. Cristo immolato sul patibolo del Golgota è il massimo segno dell’amore che si dona all’uomo, risanandolo dal suo male ultimo: il divorzio dalla radice di cui è fatto. Le piaghe, il sangue che scorre, in primo luogo il cuore trafitto dalla lancia del soldato romano sono l’eccesso clamoroso in cui si riassume (così hanno sperimentato i mistici di ogni epoca) lo slancio di una carità che non poteva lasciarsi contraddire dallo sfregio della contestazione aggressiva dell’uomo.
Il costato ferito rimane aperto per sempre, e dal varco creato dalla punta dell’arma dopo che si decise di risparmiare l’integrità delle ossa del corpo di Cristo, senza spezzarle, fuoriesce quel fiume di sangue misto ad acqua in cui la tradizione cristiana, rilanciata in modo potente nel cuore delle tragedie del Novecento, ha visto la sorgente zampillante della Divina Misericordia, che lava e rigenera con la forza della vita nuova del Risorto all’opera nel mondo. Aderire alla presenza viva di Cristo vuol dire accogliere l’invito persuasivo del suo “Seguimi!”. Significa prenderlo sul serio come il paradigma in cui ci immedesima la risposta del nostro amore resuscitato, sulla strada del ritorno alla comunione con il Padre. Stare nella compagnia di Gesù porta così inevitabilmente a immettersi nel solco della sua stessa missione: far risplendere la luce e la forza attrattiva della gratuità di Dio nella testimonianza di uno sguardo nuovo, pieno di amore, di positività e di capacità di dono, sulla totalità della realtà, in ogni frammento delle fluttuanti circostanze della vita.